13. Corrado Alvaro, ITINERARIO ITALIANO, Bompiani, Milano, 1995
Gli Etrushi e la civiltà popolare
Lo scoprimento del Colle Capitolino ha messo a nudo la roccia dalla parte settentrionale; di lassù, da un giardinetto pubblico, si può guardare lo strapiombo, e quella storia della nostra terza elementare, dei lunghi assedi e della Rupe Tarpea, è vera verissima: torna, a guardarvi, quella nostra prima fantasia intatta, con le domande sorprese che avremmo fatte allora. Ecco restituita agli uomini una grande favola. Ai piedi della rocca crescono i cipressi e il verde. A guardare dal Teatro Marcello, vengono a mente altre alture come questa, una roccia di questa stessa natura, questo stesso senso; i luoghi delle città etrusche; è un angolo, alla fine, che attesta del primo nucleo di Roma, proprio quello di cui Roma si volle disfare fin nella tradizione: un angolo etrusco. Ce li possiamo figurare. Direi anzi che una stretta
parentela lega la provincia italiana del Centro con il senso della vita
etrusca, la quale doveva essere piuttosto una forma di vita e una mentalità che
una civiltà. Tutta la letteratura che sa di popolo, da Bologna a Roma, ha
sapore di Etruria, la sua stessa licenza e la sua giocosità; è, accanto alle
civiltà perfette, il limite della civiltà terriera e popolare, l’espressione
cui si può riportare molta vita dell’Italia centrale, specie popolare. E non è
detto che anche questo non fosse un vertice. L’Etruria è il paesanismo italiano
arrivato a una espressione perfetta; è la minuta civiltà popolare nella grande
civiltà nazionale. Facevano tombe al modo degli Egizi, ma senza l’aspirazione
delle piramidi che implica una civiltà inumana, bensì come case sotto
monticelli di terra, nella pietra; avevano i loro dii come i Greci, ma
traducevano i temi della Grecia sulla creta; la loro vita risuona di anfore e
vasi di terracotta come tutta la vita popolare italiana. Una civiltà di
provincia, buona per vivere fino a che si è in vita, e per non lasciare nella
storia altro attestato che di una operosità giunta al culmine delle aspirazioni
nient’altro che umane. Ed ecco che in un paesaggio tanto tranquillo e remoto,
fra uomini così ragionevoli, nascevano le aspirazioni di Roma al divino.
L’Etruria morì coi suoi ultimi uomini ventruti, coricati sulle tombe in una
rassegnazione e pienezza buddistica, uomo e donna sotto lo stesso lenzuolo, a
sorridere, levati sul cubito, della fine; avevano avuto i loro dii magri e
sottili, un Marte succinto con un elmo troppo grande e quasi infantile, le sue
scalze dee in atto di modeste passanti; aveva empito di favole licenziose
l’antichità per la carnalità delle sue donne. Sembra di leggere Boccaccio.
Rimase una eredità, ai Latini, etrusca: l’assenza di favole e di miti troppo
grevi nella loro storia; i miti e i simboli nella storia dei popoli antichi
segnano troppo limitatamente la loro strada e impegnano l’avvenire. Veio è alle porte di Roma, e a vederne il luogo si capisce
che guerra dovette essere la sua con Roma, da castello a castello, da famiglia
a famiglia, da tribù a tribù. A un certo punto della campagna, a settentrione,
sulla via di Bracciano, una strada si sprofonda umida per una valle, rasenta un
fortilizio medievale e un villaggio; sembra una via segreta come il meato
attraverso cui gli antichi immaginavano l’ingresso nel mondo dei morti. Forse
le vie degl’Inferi erano quelle dei paesi morti. Un mulino scroscia nella valle
presso una chiusa e, come nei vecchi stucchi romani, l’albero, la casa rustica,
il campo, hanno uno stile fuori del tempo, quello stile popolare che spesso è
tutt’uno con lo stile arcaico, riconoscibile in tutti i paesi, nella letteratura
come nella pittura antica. Fuori del mulino sono pochi uomini, i bovi che
aspettano il carico; l’acqua scivola sotto una passerella di legno, e cade
nella valle: ha una vita di migliaia di anni, si direbbe che parli una lingua.
Poi, uscendo su uno spiazzo, compatta e grigia come l’acciaio una strada
selciata appare, e si conficca come un’arma entro un colle erboso. Dopo pochi
passi un recinto di filo di ferro chiude la necropoli. È difficile vedere più
misere rovine di queste; non c’è un solo rudere in piedi, e come in una pianta
sono visibili le fondamenta d’un tempio. A sedersi sul muricciolo, il
fondamento del tempio di Apollo, si vede da vicino lo spolverio minuto e lento
di questa terra, come se fosse una frana immane, e non è che lo smuoversi lento
di poca terra sotto di noi; non c’è neppure quello che rende quasi allettante
il suolo delle necropoli etrusche, in cui l’occhio cerca distrattamente il
frammento minuto dei cocci, dei vetri dai colori iridati, e i neri nerissimi
rottami di vasi; niente altro che polvere, e il colore di quella polvere, le
lastre di pietra della strada e delle fondamenta sconnesse, come passi fatti
incerti. Ma la voce dell’acqua è là sotto, il fiume che sprofonda tra
una vegetazione di fiori d’un altro regno, e il ponte naturale di pietra che lo
scavalca, come in certi paesaggi dell’America aborigena. Appunto questa
religione dei fiumi, nata da necessità pratiche, dovette esser legata, come
accade, a significati occulti e religiosi; il fiume era la difesa, la linfa e
il bagno, e lungo il fiume erano le vie dissimulate fra le rocce. C’era della
tribù e della città, miscuglio che dà un colore stretto a quella vita. Direi
che l’archeologia di Veio è tutta in questo fiume che la circonda. A primavera
il prato lungo il fiume è pieno di fiori, una ricca fioritura di orchidee
selvatiche, che, a strapparle mostrano i loro tuberi sotterranei come attributi
sessuali (l’orchidea è un fiore maschile), quelli stessi che accompagnano la
vita etrusca e il transito suo. Cerveteri è oggi un paese, con la sua bella fontana in mezzo
alla piazza, la vita minuta delle donne e dei ragazzi, l’odore del mosto e del
vino nei vicoli; l’osteria per chi scende a caccia, vecchio svago etrusco. Di
qui si vede il mare, deserto come la terra che è intorno; è il mare che si vede
nel fondo delle pianure, dei deserti, della maremma; sta nel fondo rattrappito,
come se si ritirasse, vecchia strada su cui passano le navi, ma di altro mondo
e di altri porti. A occidente del paese è la necropoli: di qui il paese nuovo
si confonde col vecchio colore della muraglia di tufo su cui è costrutto. La terra è incredibilmente molle, minuta polvere; sulla via
di accesso che si stanno costruendo gli operai affiorano rottami di orci; un
uomo sta lavando certi bùccheri di fresco scavati in una tomba. Là sotto si
circondava ognuno di questa roba, e gli antiquari ne vendono per raccogliere la
cenere delle sigarette. Penso che se di qui a molti secoli le cose del nostro
tempo e della nostra vita divenissero rare e preziose, non le tombe
somiglierebbero più a questi depositi etruschi, ma i grandi magazzini; allo
stesso modo si presentano questi numerosi vasi, che danno l’idea della merce
moderna a serie. Abituati come siamo a considerare le cose antiche tutte come
prodotti tipici e unici, ecco qui merci della vita d’ogni giorno; e non è
questa una delle ultime ragioni del potere che i resti della vita etrusca hanno
su di noi. Ma questi Etruschi, i cui nomi a noi pervenuti hanno un
suono di casati italiani di vecchio ceppo, hanno portato nella nostra fantasia
il colore d’un popolo, merce d’uso quotidiano: coppe, orci, brocche, lampade,
fibbie, strumenti per misurare il tempo; la visione d’un mercato di piccole
cose, il sentimento della gente, i suoi bisogni. Romani e Greci ci hanno lasciato quasi soltanto grandi
attestati, segni d’una vita eternamente pubblica, solenne, alta; la loro folla
è quella del coro dei drammi e delle tragedie, e apparve soltanto come volontà
collettiva sulla via della volontà individuale; è un mondo di eroi e di
privilegiati; ma questi Etruschi, i cui nomi maggiori che ci sono pervenuti
hanno un suono di casati italiani di vecchio ceppo, di cui non rimane che il disegno delle città e degli
edifici, hanno portato nella nostra fantasia il colore d’un popolo, la forma
della casa nelle loro tombe, e tutta questa merce d’uso quotidiano: coppe,
orci, brocche, lampade, fibbie, strumenti per misurare il tempo, situle, ciste;
il ricordo perenne dell’acqua necessaria, del vino, dell’olio; la visione d’un
mercato di piccole cose comuni, il sentimento della gente piccola coi suoi
angoli di casa, le sue abitudini, i suoi bisogni. Quasi consci della loro fine, fondarono le città dei morti
che furono in tutto la riproduzione delle loro case. Nei Romani la stessa morte
con le tombe lungo le strade dà il senso del lungo cammino; si avvicendava essa
alla vita, simile a una tappa, come le poste dei suoi cursori; ma questi
paesani con la memoria dei sepolcri orientali fondavano necropoli che dovevano
sopravvivere sotto la terra cui potevano correre le invasioni e l’aratro
solcare senza disturbarli. La necropoli di Cerveteri ha addirittura la pianta
d’una città: una strada nel mezzo con la traccia delle ruote dei carri, e solo
più tardi, quando ci si accorge che è una città di sepolcri, le strade che si
spartiscono in certi angolo, con qualche pianta di rose in fiore ai crocicchi
(caste e frigide rose delle città morte), portano alla stessa pace e allo
stesso silenzio, solo allora è come se si vacillasse al bivio d’un viaggio
ultraterreno. Ognuno di questi luoghi è una casa; se si scoprissero della terra
che li copre come capanne, con le sue zolle erbose, si rivelerebbe una città di
case basse, con le loro porte, quella umile e quella ampia di grandi e ricche
famiglie. È lo stesso che affacciarsi sulle foglie delle casupole di certi
villaggi: qui è una stanza comune, per starvi, mangiare, dormire; alle due
pareti opposte due lettini di pietra separati dalla colonne che regge il
soffitto, e nel mezzo, come se qualcuno si dovesse destare ancora da una sete
notturna, un ripostiglio coi vasi del vino, dell’acqua, e il piatto delle
pietanze. Piccola casa modesta, senza servitù, senza decorazioni, scavata tutta
in un blocco di tufo. Quella del sepolcro più grande riproduce il palazzo. C’è la
scala esterna, e a mettere i piedi sugli scalini, di quanti mai passi
risuonano; il corridoio d’ingresso col muricciolo su cui sono posati i vasi dei
viveri; come in certe case rustiche si passa per la dispensa e per la cucina; e
poi la stanza centrale: intorno intorno pel muro i cubicoli della famiglia; nel
mezzo, sulla parete centrale, quelli del padrone e della padrona. In queste
grandi case, divenute sepolcreti, il letto dei capi della famiglia è uno solo
comune, non come nelle piccole sepolture dove i letti sono separati quasi che
uomo e donna avessero troppo faticato insieme nella loro vita. Qui stanno
insieme su un letto scolpito nel tufo e lavorato di stucchi; vi è riprodotto il
letto loro di ferro o di rame, il materasso, i due cuscini un poco in disordine
per avervi vegliato un poco, lo scalino per salirvi, il tavolino da notte
accanto. Sullo scalino sono posate le scarpine della signora, la signora ha
appeso al muro una collana che si è tolta or ora, appeso dalla sua parete il
ritratto di suo padre, e sul tavolino da notte il rotolo d’un libro letto a
metà prima di prender sonno. Intorno, per le pareti e per le colonne semplici e squadrate
che reggono il soffitto a travicelli scolpiti nella pietra, come se sopra vi
fosse un primo piano, le immagini della vita dell’uomo, l’arco del cacciatore,
il bastone, il carniere, la spada, lo scudo, l’elmo; e per la signora, la
spatola della cucina la faina, domestica come il fatto, e infine il famoso
flauto che suonava per la caccia, per il pranzo e per la danza, per segnare il
ritmo di chi rimenava la pasta e di chi vibrava i colpi di sferza delle
punizioni. In terra, all’ingiro, letti di pietra inclinati pei servi che vi
erano deposti a dormire anch’essi l’ultimo sonno. Ma quei lettucci delle famiglie piccole e modeste! Quello
dell’uomo liscio e scomodo. Quello della donna con un cuscino di pietra più
inclinato, e le due sponde rialzate ai lati, letto d’un’infanzia eterna, letto
premuroso come se qualcuno lo avesse rincalzato, per contenere meglio la donna
che, si sa, è inquieta. Riomaggiore Suona bene il rivo di Riomaggiore e fa più allegria che il
nome stesso del paese; suona chiaro nel suo letto di pietra per la valle chiusa
in cui si raduna l’abitato, e lo riempie della sua presenza; scompare sotto le
case fatte a cavalcavia, sfocia in breve nel mare per un delta largo di pietra
che è un difficile approdo. Qui il mare batte profondo e cupo tempestando
contro la roccia, presso gli archi e le caverne vuote, umide di colaticci, su
cui si leva qualche abitazione alta e scarna. Questa è sul mare la porta
stretta d’uno strettissimo paese, forse il più stretto fra i paesi italiani. E
naturalmente uno dei più diligenti. Né da destra né da sinistra nel breve arco
dell’approdo si scorge la costa; gli scogli lo chiudono, il mare non ha
risparmiato neppure un pugno di terra; qualche barchino in secco attesta una
piccola vita di pescatori. Il mare qui è molto inospitale, nemico e
intrattabile, continuamente all’assalto della terra, e lava sempre la roccia
che regge sicura la montagna. Il treno dà accesso al luogo per una stazione tra due
gallerie, chiusa tra il mare e la parete verticale di pietra bruna; per un
sottopassaggio tra le gole di macigno si raggiunge l’abitato; Qui risuona il
rivo che ho detto, per il paese folto nella valle in pendio. Scavalcando il
rivo, le scale e i ponticelli danno ingresso alle case brune e rosa a ridosso
del monte sull’altra sponda; tra una spalletta e l’altra del rivo incassato in
un letto di pietra, un disegno di fili di ferro regge i tralci della vite, un
pergolato si stende su un diligente intreccio di fili per tutto il corso
dell’acqua. Il colore crudo della pietra, quello bigio del muro nudo, il rosa
delle abitazioni, il verde della vite, si accordano in quella luce che è densa
come in tutte le valli. Questi luoghi e colori amò il pittore Telemaco
Signorini. La valle sale ripida verso settentrione incontro ad altre
valli che solcano la regione aspra delle Cinque Terre. Questa è la regione
della Liguria famosa pel suo vino, un tempo celebre in tutta Europa, che si
stende tra valli e monti per tutto il massiccio che precede La Spezia. Stretta
tra monte e mare, è un’opera dell’ingegno italiano come tanti altri luoghi di
una Italia troppo stretta. Forse l’attitudine italiana alle arti ha inizio nel
suo contadino e nel suo lavoratore di terre. Basta guardare come l’opera dei
campi è bella dove è nata la nostra arte. La stessa natura del terreno ha costretto il contadino a un ordine
architettonico, e la strettezza a un’armonia addirittura formale. Così è nelle
Cinque Terre. Son diversi i vini che vi si producono, uno famoso si chiama
Sciacchetrà, un nome dritto come uno sparo; è riconoscibile tra mille come è
riconoscibile la vite di questa contrada. M’accadde in Maremma, scendendo già dalle Cinque Terre, di
dire a un vignaiuolo del mio viaggio. Il maremmano conosceva di fama la
regione, anzi aveva una vite di questa contrada fra le sue. Me la indicò tra i
filari come un personaggio, e mi raccontò come e quando l’aveva avuta. «E
questo», mi disse indicandomi il colle «è un sistema da Cinque Terre. Lo so,
sono famosi quei di là.» Questa celebrità contadina, fra gente che lavora a
regola di mestiere, apre gli orizzonti, avvicina le contrade in una consuetudine
primitiva di rapporti che passano i monti e le regioni; ancora s’immaginano le
distanze come nei tempi dei tempi, quando viaggiatori e naviganti portavano da
terre lontane le piante utili e buone. Come nei racconti dell’infanzia, mi
piacciono i contadini che parlano di regioni remote, spesso là dal mare, e
dicono il sito dei luoghi, la natura delle piante e i sistemi degli uomini.
Parlano guardando l’orizzonte. Anche qui in Maremma la vite era piegata sul
filo in modo da frondeggiare contro il salino del vento e riparare il grappolo,
raccolta come una bestia sul suo nato. Al contrario di quella arborea
dell’Italia meridionale che confonde la cima con l’olmo e il pioppo cui
s’appoggia. E anche qui era cominciato il lavoro per cui giustamente va famosa
la contrada delle Cinque Terre: la scalata della vite alla montagna. Dunque, la contrada delle Cinque Terre, chiusa tra i monti e
il mare, è un massiccio con cinque paesi che da secoli hanno dato la scalata al
monte portando la vite sino alla vetta. I colli sono nudi d’alberi, nascono
dallo strapiombo sul mare, e, dal primo gradino formato dallo scoglio che
rattiene l’onda, l’uomo ha cominciato la sua ascensione. Passo dietro passo ha
costruito per tutti i colli e monti attorno un sistema di terrazze; una
terrazza sull’altra come una scalinata composta pietra per pietra e colmata di
terra palata per palata. È un lavoro di generazioni: un incalcolabile numero di
gesti per assestare la pietra della moriccia, versarvi la terra trasportata
dalle donne cofano dietro cofano, piantarvi la vite, intrecciarvi sopra il filo
di ferro in modo che la montagna tutta e le altre son coperte da questa
ragnatela su cui ogni anno si stende il tralcio nuovo e si lega, e poi il
tralcio frondoso è adagiato in modo da riparare dal vento bruciato del mare il
segreto dove il grappolo matura. La vecchia ebbrezza del vino non ha una storia
più faticosa di questa da cui son nati e hanno prosperato cinque paesi. La
buona vite cui basta poco terreno, tarchiata e nocchiuta come un vecchio
italico resistente al lavoro, delicata come un donna dei paesi del sole, è
divenuta famosa, e sotto il mantello di qualche trasmigratore è stata portata
come un esemplare fidato oltre la stretta catena delle Cinque Terre, dove il
salino pure minaccia le piante, dove pure il suolo è crudo e ha bisogno di
piante tenaci. Per uno spazio di otto miglia in lungo e in largo, fino a
settecento metri di altezza, i monti delle Cinque Terre si levano col sistema
loro di terrazze innumerevoli, verdi, ridenti, tentativo fedele d’una scalinata
celeste; hanno il movimento d’una spirale, si potrebbero tradurre in suono: un
sibilo lungo echeggiante da valle a valle nella solitudine in cui rompe preciso
lo schioccare della forbice del portatore, l’acciottolio della zappa, e si
stende in un fondo compatto il tonfo uniforme del mare. Come in una grandiosa
scena di teatro, o in una cupola gigantesca, scalette strettissime per la china
rendono praticabile quest’opera e raggiungono le case solitarie tra i vigneti
sulla cima del monte. In una lotta così esatta con la strettura, anche la
passeggiata di Riomaggiore è angusta. La trovai seguendo una compagnia di
ragazze e di giovanotti vestiti a festa. Un passaggio tra pietre, una galleria
nella roccia, un nastro di strada davanti alla stazione, e alla svolta un
viottolo a mezza costa del monte. Il viottolo gira per le pendici fino alla
prossima valle; da un lato la parete scoscesa del colle coronato di viti,
dall’altro lo strapiombo sul mare, il mare grande, libero, che fa ricordare, quand’uno
è costretto in poco spazio, il miracolo di chi vi camminò sopra. Questo
sentimento di spazio, ugualmente impraticabile come la valle stretta, rendeva
lieta la brigata dei giovani che andava su e giù pel sentiero ornato di qualche
panchina, qualche agave, qualche pianta smagrita dal libeccio; e pareva una
passeggiata intorno al bastione d’una fortezza. |
Commenti
Posta un commento