14. Riti purificatori ed apotropaici

da P.Zoetmulder, LA RELIGIONE A BALI, in Les Réligions d'indonesie, Paris 1968, Capitolo 3


Che vengano celebrati da un individuo o dalla comunità tutti i riti si basano su un ristretto numero di idee fondamentali che la liturgia concretizza in modo molto diverso. Abbiamo già incontrato quello della discesa degli dei. In questo senso possiamo aggiungere che gli dei utilizzano non solamente le figurine e le statuette preparate per il culto del tempio ma anche certe persone entrate in uno stato di trance. Parlano attraverso la loro bocca e li si può, dunque, interrogare. Quando si è dotati della capacità di cadere in trance, questa si manifesta improvvisamente, nel momento stesso in cui la divinità ha preso possesso del corpo. Quindi l’interessato può raggiungere nuovamente questo stato attraverso dei riti, e soprattutto sporgendosi sopra una vaschetta ed aspirando l’incenso che vi brucia. Questa capacità non si perde mai. Vi si fa appello in particolare durante le feste dei templi. In quella occasione i medium si riuniscono ed il prete introduce e sorveglia la discesa degli dei, nella stessa maniera delle statuette. Talvolta capita pure che tra le donne che danzano in cerchio per portare le offerte al tempio alcune cadano in uno stato di trance. In certe località si organizzano danze per bambine in trance: in questo stato esse sono in grado di danzare perfettamente ed in equilibrio perfetto in piedi sulla spalla di un uomo anche se prima nessuno aveva loro insegnato a danzare. Si crede che siano discese nel loro animo le ninfe del cielo.
Come per il Kaja ed il Kelod le idee di purificazione e di protezione sono, in un certo senso, complementari. I riti purificatori permettono ad una persona o ad una cosa di entrare in contatto con il soprannaturale; i riti apotropaici sono a loro volta il culto reso alle potenze infere ed un mezzo per impedire loro di nuocere. Le due varietà di rito coincidono, perché la purificazione è, tra l’altro, un modo per allontanare il male. 





Non si penserebbe nemmeno all’idea di organizzare un rito in onore agli dei urani senza pensare al tempo stesso a quelli ctonii. Le offerte destinate ai primi sono poste su di un trespolo; ai demoni (akal, buta) si portano delle offerte denominate col nome speciale e generale di caru, in direzione di kelod, direttamente in terra, mentre il prete agita un ventaglio per dirigere l’essenza verso terra. Così il combattimento di galli, che è ai nostri giorni un popolarissimo divertimento coltivato con passione, era all’origine un sacrificio di sangue destinato alle potenze ctonie.

In una parte indispensabile per tutte le feste del tempio è la purificazione. In questa si compie in processione il giro dei “troni” o delle “sedi” degli dei, prima che questi vi discendano. Ogni purificazione di questo genere comporta, come elemento di rituale importantissimo, l’acqua benedetta. Questa può essere sia preparata da un prete attraverso un rito di grande complessità, sia raccolta direttamente alla sorgente o da un fiume sacro. È importante, per comprendere meglio lo spirito della religione balinese, soffermarsi un istante sull’uso di un accessorio apparentemente assai inutile come l’aspersorio. È infatti qualcosa di più che un oggetto: composto da quaranta differenti parti tagliate o intrecciate, in modo incredibilmente colto, in foglio di palma, egli è una vera e propria persona. Si pronunciano sopra di lui dei mantra che incitano gli dei a risiedere in lui nel momento in cui si benedice; in questo ruolo ha il titolo di Signore Giallo-Verde.



In quanto fin qui detto abbiamo usato con una certa frequenza la parola prete: sarà meglio esaminare ora il problema con un pochino di attenzione. Nella religione balinese vi sono tre categorie di preti: il pedanda, il pemangku ed il sengguhu. Il pedanda è sempre un bramino. Deve passare attraverso un’iniziazione. In termini molto generali potremmo dire (e senza tenere conto del fatto che non sempre queste tre funzioni sono così nettamente distinte) che il pedanda è il prete dei principali centri indo-giavanesi, il pemangku quello dei culti popolari, ed il sengguhu è soprattutto responsabile dei riti ctonii, così che potremmo forse assimilarlo ai nostri esorcisti.



Abbiamo detto che il pedanda è sempre un brahmino che ha ricevuto un’iniziazione. Generalmente è il figlio più grande della prima sposa (per rango) di un pedanda e fin dall’infanzia lo si è preparato a questo ruolo attraverso una educazione ed una condotta esemplare. Gli studi abbracciano i diversi campi della letteratura balinese: occorre conoscere il vecchio giavanese ed il medio-giavanese. In compenso è veramente molto raro che questi preti conoscano veramente il sanscrito, che è utilizzato solamente nei mantra ed in alcune citazioni; normalmente viene storpiato orribilmente.
Un’importanza straordinaria viene riconosciuta ai testi religiosi riuniti sotto il titolo di Weda. Ma questo nome non designa qui la antologia religiosa dell’India antica conosciuta con lo stesso nome. La presenza di questa a Bali non è attestata né in forma originale né in forma tradotta: è dunque probabile che non la si sia mai conosciuta. La parola designa, al contrario, i mantra sanscriti (il termine tecnico per la preghiera rituale è meweda e comprende in un senso più largo tutti i testi religiosi, e quindi anche gli inni ed i trattati sulle divinità ed il mondo, il macrocosmo ed il microcosmo, o anche la teoria della pratica della liberazione). Tanto gli studi che gli esercizi si basano sul genere di vita imposti a lui dalla casta e vengono fatti sotto la guida di un maestro la cui parlo è legge e verità. È perciò il maestro che procede all’iniziazione ed all’ordinazione; tre mesi dopo essere stato ordinato il giovane prete passa una specie di esame che ha come argomento “i testi ed i riti”. È solamente dopo questo ch’egli ha il diritto di esercitare le sue funzioni, con le prerogative che vi sono collegate.
Inizialmente la sua funzione era quella di un brahmino indiano a corte: prete, insegnante e mediatore di benedizioni. Naturalmente egli presiedeva tutti i riti del re, ed egli tuttora presiede le cerimonie che risalgono a quei riti. Se ci ricordiamo che molte di queste cerimonie sono lentamente entrate nel culto popolare si comprende che noi incontreremo questo prete anche in questi culti ma non più come maestro di cerimonia (ruolo questo che appartiene al pemangku). Egli, contrariamente a tutti gli altri abitanti del villaggio, non è affatto tenuto a presenziare a questi culti popolari. Il suo ruolo principale consiste nel preparare l’acqua benedetta, il cui ruolo nella religione balinese è talmente importante che questa stessa è denominata agama tirta (religione dell’acqua benedetta). Egli tutti i giorni la prepara sia in casa sua che nei templi, in occasione delle grandi festività, senza che il rito muti sensibilmente. Dopo aver fatto un bagno ed essersi rivestito con determinati paramenti, il pedanda si siede con le gambe incrociate davanti ad un basso tavolinetto sul quale si trovano i seguenti accessori: dei fiori, dei grani di riso, della polvere di legno di sandalo, la campana della preghiera, il recipiente dell’acqua benedetta, una lampada ad olio ed un turibolo. Pronunciando dei mantra comincia a lavorarsi le mani invocando Shiva perché si degni di scendere nell’acqua benedetta e nel suo corpo. Dopo avere eseguito certe pratiche respiratorie yogi consacra l’acqua una prima volta: per fare questo egli scrive sull’acqua con un filo d’erba consacrata la sillaba a-u-m- e getta dei fiori nell’acqua; allora Shiva e le sue forze santificanti sono entrate in questa. I mantra che vengono pronunciati nel mentre rendono omaggio alla dea Ganga ed ai sette fiumi sacri dell’India antica. Segue una nuova recitazione dei mantra (compreso il kutamantra); quindi viene consacrata la campana della preghiera che in seguito farà suonare costantemetne. Tra i suoni della campana il prete mette le sue mani in una molteplicità di posizioni (mudra) successive. Quindi comincia la seconda benedizione dell’acqua, con differenti mantra. Quando l’acqua è così stata sacrificata tramite la discesa di Shiva, il prete compie tutte le pratiche necessarie per unirsi alla divinità. I riti che abbiamo appena ricordato servono così anche a prepararsi a questo. Ora si strofina di polvere di sandalo, si pone sulla fronte una corona d’erba chiamata alang-alang, prende il cordone dei brahmini ed una mitra rossa e d’oro. Tenendo in mano una presa di grani di ganitri, egli si dà allo yoga della “recitazione della preghiera a mezza voce e della meditazione”che, già lo si è visto, termina con l’unione con Shiva. Quindi, recitati altri mantra, il dio abbandona la sua momentanea sede.


Il pedanda vive innanzi tutto della vendita dell’acqua benedetta. La sua clientela abituale proviene da tutti i livelli sociali, è dunque lontana dal limitarsi a l gruppo denominato triwangsa. Ci si rivolge a lui anche per le feste familiari, come l’attribuzione di un nome ad un bambino, la limatura dei denti o un matrimonio. Nel culto popolare egli interviene nel corso delle feste del tempio, ma il suo rituale non appartiene completamente a quella liturgia: si sviluppa attorno a lui senza mai coinvolgerlo completamente. “In tale modo egli mostra simbolicamente la sua posizione in rapporto alla religione popolare: è un invitato, un invitato d’onore, che viene trattato con tutte le attenzioni, ma che resta pur sempre sostanzialmente estraneo al culto”. In compenso la sua presenza è assolutamente necessaria per le cerimonie principesche o ereditarie del culto reale. La cosa è vera in particolar modo per la cremazione. In quella sede egli è il vero officiante. Ed è proprio in quella circostanza che noi incontriamo il terzo prete, il sengguhu. Quello non è un brahmino: sua competenza sono i sacrifici al mondo inferiore, il rapporto particolare con Visnu. Durante le cerimonie egli rimane in un padiglione più basso di quello del pedanda indirizzato verso nord, punto cardinale di questo dio. Mentre recita dei mantra uno dei suoi accoliti soffia in una conchiglia, mentre un altro suona il tamburo. A Bali Visnu è in rapporto con l’acqua e con il mare. Nel rito del nyepi è identificato con Kala e Durga. Altrettanti tratti ctonii. Si è supposto che il sengguhu sia il successore di un genere di prete appartenente ad una setta visnuita che oggigiorno non esisterebbe più; di questa epoca trascorsa egli avrebbe potuto conservare il suo ruolo nell’elemento ctonio di determinate feste.






Presso i pedanda si distingue il pedanda Shiva ed il pedanda Boda (buddhista). Questo non significa che la religione a Bali sia divisa in due parti, ognuna con i suoi fedeli e le due divinità: la distinzione riguarda solamente i preti (il secondo gruppo è nettamente meno numeroso del primo). Per quanto concerne l’acqua benedetta poco importa da chi la si ottiene. Le differenze vertono unicamente sul rituale, gli oggetti consacrati, e soprattutto gli dei invocati durante i mantra. Durante le cerimonie, ad esempio, il pedanda Boda tiene nella mano destra non un fiore ma un oggetto specificatamente buddhista, l’arma/diamante (bajra) mistica, che ha dei due lati cinque denti a forma di foglia. Essi si distinguono dalle loro regole e genere di vita, in particolare anche dal loro taglio di capelli. Si ha motivo di credere che, anche in questo campo, siamo in presenza di una distinzione primordiale di cui già si è parlato a proposito di Bubuksa e di Gagan Aking. Contrariamente al pedanda Shiva il pedanda Boda è al di sopra delle questioni esteriori del digiuno e dell’alimentazione; egli preferisce manifestare la sua unione col divino attraverso il controllo di se stesso. In occasione delle cerimonie generali della corte i due gruppi di pedanda intervengono. Rappresentanti di due mondi complementari sono indispensabili gli uni agli altri. Pertanto il principio di antitesi, dominante a Bali, fa sì che il pedanda Boda sia collocato sul lato kelod; questo lo avvicina alle potenze ctonie, dunque assimila la sua posizione a quella del sengguhu.

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