17. Storia dei viaggi in ferrovia

Wolfgang Schivelbusch, Einaudi Torino, 1988

Colto e divertente. In certi punti veramente esilarante. La storia dei viaggi in ferrovia che qui presentiamo contiene pagine sorprendenti, ben lontane dal banale e deprimente titolo del libro.  Abbiamo scelto un capitolo dedicato alla psicologia del viaggiatore ed all’ansia sottile che lo lega all’isolamento nello scompartimento. Impossibile non ripensare a “Omicidio sull’Orient Express” di Agatha Christie!


Per il pensiero progressista della prima metà del XIX secolo, la ferrovia è il garante tecnico della democrazia, dell’intesa tra i popoli, della pace e del progresso. La comunicazione per mezzo della ferrovia, così si pensa, avvicina gli uomini non soltanto spazialmente ma anche socialmente. È questa una considerazione di matrice europea, ed è stata formulata nel modo più solenne dal sansimonismo. La generazione di intellettuali che compare sulla scena politico-economica della Francia intorno al 1825, anno in cui muore Saint-Simon, proietta nell’industria tutte le speranze egualitarie che la rivoluzione e l’Impero avevano lasciate irrealizzate. L’industria  e soprattutto la ferrovia, in quanto sua spettacolare punta di diamante, appare come la forza materiale in grado di realizzare l’uguaglianza e la fratellanza del 1789 in modo più efficace, rispetto a qualsiasi tipo di emancipazione politica, puramente formale.

Questa concezione della ferrovia come settore di un’industria emancipatrice, viene formulata con molta chiarezza da Pecqueur «I viaggi collettivi, in ferrovia o sui piroscafi, e le grandi folle di lavoratori nelle fabbriche, sono uno stimolo straordinario per i sentimenti e le consuetudini di eguaglianza e di libertà. Come per prodigio, le ferrovie faranno prevalere rapporti sociali veramente fraterni, e contribuiranno all’uguaglianza più di quanto non abbiano fatto le esagerate profezie dei tribuni della democrazia; e tutto ciò diventerà possibile perché si viaggia insieme con gli altri, perché qui tutte le classi della società si incontrano, perché si crea una sorta di mosaico vivo, fatto dei più disparati destini, posizioni sociali, caratteri, comportamenti, usi e costumi, a cui ogni singola nazione dà il proprio contributo. Così si riducono non soltanto le distanze tra i diversi luoghi, ma, nella stessa misura, quelle tra gli uomini »

Se è convinto che ferrovie e piroscafi «sono davvero i mezzi di trasporto dell’uguaglianza, della libertà e della civiltà», Pecqueur sa anche che vecchi privilegi e diseguaglianze potrebbero ricomparire nelle creazioni dell’industria, sebbene queste siano per loro natura egualitarie e democratiche. Secondo Pecqueur, l’uguaglianza e la democrazia dell’industria in generale, e della ferrovia in particolare, devono essere garantite «da un’uguaglianza già preesistente tra le diverse classi o razze che formano la nazione: in assenza di questo presupposto, può facilmente verificarsi l’eventualità che i vagoni vengano distinti in categorie diverse e che si operi una divisione in base al rango e al patrimonio, sul modello delle “ chaises de postes ”, delle “voitures particulières” e delle “remises”.

Ciò che Pecqueur ipotizza come un’eventualità infausta è la suddivisione in classi. Quando egli scrive l’Économie sociale, in Francia questa suddivisione non esiste ancora per la semplice ragione che non c’è neppure una ferrovia adibita al trasporto di persone. Ad eccezione di una breve linea, fino agli inizi degli anni quaranta in Francia la ferrovia è conosciuta soltanto sotto forma di servizi giornalistici sulle ferrovie inglesi e belghe. Peraltro, in questi paesi, la suddivisione in classi esiste fin dall’inizio. Il fatto che il pensiero progressista dell’epoca, e in particolare il fanatismo con cui i sansimoniani guardano all’industria, prenda atto della cosa solo incidentalmente, si spiega con il fascino travolgente esercitato dalla forza del vapore. Di fronte alla sua inaudita energia e produttività, i tradizionali privilegi sociali sembravano mantenersi in una posizione difensiva talmente disperata che, per così dire, non valeva più la pena occuparsene. Dunque, pur non escludendo la sopravvivenza delle diseguaglianze, anche Pecqueur ritiene che la vittoria dell’uguaglianza sia garantita dalla tecnica. In un treno, così egli argomenta, i viaggiatori sono tutti uguali perché si trovano in una situazione di uguaglianza tecnica: «È lo stesso treno, la stessa forza che trasporta grandi e piccoli, ricchi e poveri; perciò le ferrovie in generale saranno instancabili maestre di uguaglianza e di fratellanza».

La storia della ferrovia, che anche in Francia introdusse classi diverse, sconfessò, insieme con tante altre speranze sansimoniane, anche l’idea che da una situazione uguale  sotto il profilo tecnico  per tutti i viaggiatori, conseguisse la loro uguaglianza sociale. Tuttavia, la stessa storia ha dimostrato che nell’affermazione di Pecqueur esiste un nocciolo di verità, e sia pure di tutt’altra specie rispetto a quella da lui immaginata. Il fatto che uomini appartenenti a diverse classi viaggino sullo stesso treno e siano mossi dalla stessa forza, certo non li rende socialmente uguali, ma quest’idea è costantemente presente nella coscienza di tutti i passeggeri. Il viaggio in ferrovia, l’essere sospinti su binari dalla forza del vapore, viene vissuto come partecipazione a un processo industriale. Per gli appartenenti alle classi inferiori, è questa un’esperienza diretta. In Inghilterra, fino agli anni quaranta, essi vengono trasportati in treni merci. Non sono parte del trasporto passeggeri, ma un’appendice del traffico merci. Anche dopo che una disposizione di legge (in Inghilterra il Gladston Act del 1844) ne ha stabilito la copertura, i vagoni di terza e quarta classe rassomigliano più a carri merci chiusi che a carrozze passeggeri. La situazione, durante il viaggio, di coloro che appartengono ai ceti superiori è completamente diversa. I vagoni di cui si servono sono vere e proprie carrozze montate sulla ferrovia. In questo caso, non soltanto non esiste più alcuna reminiscenza dell’origine e della natura industriale della strada ferrata, ma, al contrario, è riconoscibile il tentativo di rimuovere questo dato di fatto. Lo scompartimento, questa riproduzione praticamente immutata dell’abitacolo della vettura a cavalli, deve rassicurare i viaggiatori di prima classe (e in misura minore anche quelli di seconda classe), facendo sentire loro che stanno viaggiando come in una carrozza, solo con minor spesa e più velocemente. Ciò che si verifica, però, è l’effetto opposto. 

Proprio perché lo scompartimento è così strettamente legato al viaggio tradizionale preindustriale, il nuovo sistema di trasporto industriale vi risulta tanto più inquietante. Il fatto che i passeggeri borghesi della prima classe non si sentano più come essi dicono viaggiatori, ma pacchetti umani, dimostra che la loro esperienza di viaggio è industriale da un punto di vista soggettivo, quanto quella delle classi inferiori lo è su un piano oggettivo.

Ma l’esperienza borghese è soggettiva solo nel senso che essa ha effettivamente luogo in uno scompartimento ben imbottito e ben attrezzato, a differenza dello spazio, simile a quello di un carro merci, in cui viaggiano le classi inferiori. Oggettiva è anche l’esperienza borghese, quella di essere oggetto di un viaggio industriale , perché tutta quest’imbottitura non riesce a far dimenticare l’aspetto industriale della situazione.



Fine della conversazione durante il viaggio.

Lo scompartimento perde alcune delle sue funzioni nel momento in cui dalla carrozza a cavalli viene «trapiantato» nella ferrovia. Ciò che nel viaggio preindustriale era funzionale diventa illogico. La funzione essenziale dell’abitacolo della carrozza risulta dalla sua forma, o, più precisamente, dalla disposizione dei sedili. I viaggiatori siedono l’uno di fronte all’altro in un abitacolo a forma di «U». Questa disposizione è un invito alla conversazione durante il viaggio. La nascita storica della carrozza in quanto mezzo e forma di viaggio induce a definire come specificamente borghese questa disposizione dei sedili che favorisce la comunicazione. Lo dimostreremo con una breve digressione.

Nel Medioevo si viaggiava esclusivamente a piedi o a cavallo, a seconda della condizione sociale del viaggiatore. Il viaggio in carrozza viene in uso all’inizio dell’Età moderna, contemporaneamente a una pluralità di altri processi di defeudalizzazione e di imborghesimento della vita nell’Europa occidentale. Cosí Sombart giudica questo processo: «Nel corso del XVI secolo, molto probabilmente a mano a mano che lo stato delle strade migliorava, si diffuse l’usanza di viaggiare in carrozza. Già abbastanza spesso troviamo i mercanti del XVI secolo in “ gutschen ”, in vetture. Ma ancora intorno alla metà del XVII secolo, il viaggio in carrozza veniva osteggiato in quanto nocivo al bene pubblico: infiacchiva, si diceva, stremava i cavalli, e altre cose del genere. Alla fine del XVII secolo, l’uso della carrozza si affiancò a quello del cavallo, probabilmente come forma di viaggio di pari dignità.

Secondo Jackman, la carrozza ha la sua prima grande diffusione all’inizio del XVII secolo a Londra e dintorni, dunque in una zona dove l’imborghesimento della società è il più avanzato d’Europa.


La forma e la disposizione dei sedili della carrozza riproducono quelle di un altro mezzo, specificamente cittadino, adibito al trasporto delle persone: il sedanchair o portantina. In pratica, la carrozza è costituita da due sedanchair sistemate l’una di fronte all’altra. Ne sono una testimonianza molte illustrazioni. La comparsa di questa particolare combinazione nello stesso periodo in cui vedono la luce anche altre istituzioni borghesi per la comunicazione (caffè, club, giornali, teatri), induce a considerare la carrozza come parte di questo più ampio contesto. Il viaggio in carrozza è dunque caratterizzato non soltanto da un rapporto stretto dei viaggiatori con il mondo esterno - il paesaggio attraversato durante il tragitto - ma anche da una vivace comunicazione tra di loro. I viaggiatori nella carrozza formano una compagnia loquace, materiale per molti romanzi del XVIII secolo e dell’inizio del XIX. A tutto ciò pone fine la ferrovia. « Nella diligenza - ricorda un testo francese del 1857 - la conversazione si avvia molto rapidamente, dopo che nei primi momenti si sono studiati attentamente i propri vicini, e spesso, quando ci si separa, ci si dispiace che il viaggio sia stato tanto breve; quasi quasi si erano trovati dei nuovi amici! Che differenza in ferrovia!».


La posizione frontale dei viaggiatori, nella quale un tempo era istituzionalizzato un bisogno costante di comunicare, diventa sempre più insopportabile perché non esistono più le premesse per una comunicazione di questo tipo. La disposizione dei sedili nello scompartimento costringe i viaggiatori in un tipo di rapporto che per loro non corrisponde più a un bisogno vivo, ma a una costrizione sgradevole. È interessante vedere come, nello spiegare perché la percezione moderna venga orientata e al tempo stesso resa insicura dal senso della vista, Georg Simmel individui nei moderni mezzi di trasporto gli agenti di questo fenomeno: «In generale, ciò che noi di un individuo vediamo viene interpretato attraverso ciò che di lui udiamo, mentre il contrario si verifica molto più di rado. Perciò, chi vede senza udire è molto più confuso, disorientato, turbato di chi ode senza vedere. In tutto ciò deve per forza esserci un elemento significativo per la sociologia della grande città. In essa il traffico, se paragonato con quello di una piccola città, rivela una preponderanza sproporzionata del vedere rispetto all’udire; e ciò non soltanto perché gli incontri che si fanno per le strade di una piccola città rappresentano una quota relativamente elevata di persone conosciute con le quali si scambia qualche parola o la cui vista ci riproduce la loro intera personalità - e non soltanto quella visibile -, ma, soprattutto, grazie ai mezzi di trasporto pubblici. Prima dell’avvento degli omnibus, delle ferrovie e dei tram nel secolo decimonono, la gente non si era mai trovata in condizione di dover stare, per minuti e anche ore intere, a guardarsi in faccia senza rivolgersi la parola. Quanto al ruolo largamente preponderante di tutte le relazioni sensoriali tra individuo e individuo, il traffico moderno le lascia in misura tuttora crescente alla sola vista, e pertanto deve considerare i sentimenti sociologici in generale partendo da presupposti completamente nuovi».

Ciò che Simmel descrive come sensazione di confusione, disorientamento e turbamento, si può definire meglio con il termine imbarazzo. La lettura, come abbiamo visto, è un tentativo di supplire alla conversazione che non ha più luogo. Lo sguardo al libro o al giornale si rivela una manovra difensiva, si vuole evitare lo sguardo di chi siede di fronte. La situazione penosa (nel duplice senso del termine) di questo silenzio rimane in larga misura inconscia. Pertanto, la sensazione di tale disagio si esprime di regola soltanto in modo velato, allusivo, tra le righe. Un esempio di questo suo articolarsi in forma latente si trova nel manuale ferroviario di M. M. von Weber del 1857, in cui l’autore considera vantaggi e svantaggi del vagone europeo a scompartimenti e di quello americano intercomunicante. (Il vagone standard americano si differenzia da quello europeo in quanto i posti a sedere non sono distribuiti in scompartimenti e sistemati l’uno di fronte all’altro, bensí in un lungo vagone a corridoio e rivolti in un’unica direzione.) Weber afferma che il vagone americano non è adatto alla situazione europea. Egli si dichiara a favore del sistema a scompartimenti ed aggiunge che però apprezza in modo particolare i semiscompartimenti [batard-coupés] «i quali, essendo sistemati in testa e in coda ai vagoni, offrono il vantaggio che i passeggeri di fronte a sé non hanno nessuno e, attraverso le fiancate del coupé, provviste di finestre, possono guardare fuori in tutte le direzioni.».

Una delle poche, aperte critiche alla disposizione dei sedili nello scompartimento, si trova in un’edizione del «Railway Times » del 1838. La lettera di un lettore, ironicamente sottoscritta da «Un nemico della reclusione per debiti e durante il viaggio», propone una diversa disposizione dei sedili: «Quanto alla sistemazione interna delle carrozze ferroviarie, prego il pubblico di considerare se non sarebbe possibile migliorare il comfort sistemando alcuni vagoni in modo che i passeggeri siedano schiena contro schiena e guardino il panorama attraverso una fila di finestre lunga quanto la carrozza. In tal modo, chi facesse un viaggio circolare partendo ad esempio da Southampton o da Bristol, potrebbe guardare il paesaggio su tutt’e due i lati del percorso; e sicuramente, in mancanza di un’occupazione più interessante, la cosa risulterebbe più gradevole di un ininterrotto studio fisiognomico di tre o quattro ore»’ (il corsivo è nostro).

Il fatto che i viaggiatori non conversino più e diventino sempre più motivo di reciproco disagio, è un fenomeno che interessa soltanto le classi superiori. Nei vagoni di terza e quarta classe, che di regola non sono suddivisi in scompartimenti ma che consistono di un unico grande locale, non regna il silenzio imbarazzante, né la lettura generalizzata; al contrario, come osserva P. D. Fischer, che abbiamo già citato, il suono di «allegre chiacchiere e risate [giunge] fin dentro la noia della mia cella d’isolamento». Un’impressione di quest’animazione ce la restituisce Daudet: «Non dimenticherò mai il mio viaggio a Parigi in una carrozza di terza classe. [...] C’erano marinai ubriachi e sguaiati, grassi contadini che dormivano con la bocca spalancata e sembravano dei pesci morti, vecchiette grinzose con le loro ceste, bambini, pulci, balie, insomma, tutti gli annessi e connessi della carrozza dei poveri, con il suo lezzo di tabacco scadente, acquavite, salame all’aglio e paglia ammuffita. Mi sembra di essere ancora lí».


Isolamento.


Talvolta il viaggiatore borghese della prima classe è dispensato dalla compagnia di gente per lui sgradevole. Allora, nello scompartimento, egli è solo con se stesso. Questa situazione è ambivalente. La solitudine può essere vissuta come stato di appagamento, di sicurezza, di felicità. «Solo nello scompartimento - si legge nel Carnet de voyage di Taine -, tre ore fra le più gradevoli che da lungo tempo non avevo più vissuto ». Un altro passo del Carnet concretizza questo indefinito stato di felicità: «Mi trovavo solo nel mio vagone [...] le ruote giravano instancabili con un rumore uniforme, come l’eco di un organo grandioso. Tutti i pensieri delle cose di questo mondo e della società erano svaniti. Vedevo soltanto il sole e la terra, la terra adorna, ridente, tutta in verde, un verde variegato, e tutta in fiore sotto quella dolce pioggia dei caldi raggi di sole che l’accarezzavano».



Questa sensazione di piacere intenso, di oblio di sé - provocata dall’isolamento dell’io nello scompartimento e dal possente movimento meccanico del treno - si presta ad essere spiegato con l’aiuto della psicanalisi. Freud e Karl Abraham hanno richiamato l’attenzione sul nesso tra vibrazione meccanica ed eccitazione sessuale. Al piacere del viaggio in ferrovia corrisponde, non appena entra in gioco la rimozione, quella che Freud ha chiamato «paura del treno». Karl Abraham interpreta l’angoscia dei nevrotici di fronte a un movimento sempre più accelerato o a un movimento non governato da chi si sta muovendo, come angoscia della sessualità che si sottrae al controllo dell’individuo: «La loro angoscia si riferisce al pericolo di essere presi in un movimento inarrestabile, che non ubbidisca più alla loro volontà. Gli stessi pazienti sono soliti avere anche un’angoscia di spostarsi con un mezzo di trasporto che essi non possono far fermare a piacimento in qualunque momento (treni ecc.)».

Ciò che con la psicanalisi si può spiegare come angoscia dell’autonomizzarsi della propria sessualità, viene vissuto dai viaggiatori come angoscia del deragliamento del treno. Quest’angoscia è costantemente presente nei primi viaggi in ferrovia. Quanto più leggero e veloce vola il treno - anche questo è un topos del secolo per caratterizzare i viaggi in ferrovia -, tanto più presente è il pensiero della catastrofe, come afferma il già citato Thomas Creevy nel 1829, secondo il quale il viaggio in ferrovia è «davvero un volo, ed è impossibile sottrarsi al pensiero che il minimo incidente potrebbe causare la morte istantanea di tutti». Un testo tedesco del 1845 parla di «un senso di oppressione dell’animo che, malgrado tutte le piacevolezze dei viaggi in ferrovia, non scompare mai completamente»: appunto l’angoscia del deragliamento, della catastrofe, «senza poter intervenire in qualche modo sulla corsa dei vagoni».

La paura che il treno possa deragliare si manifesta piú esattamente come sensazione di impotenza, in quanto si è confinati in una macchina che si muove veloce senza che si possa minimamente agire su di essa. L’isolamento dello scompartimento nel quale il viaggiatore è rinchiuso, accresce la sensazione di passività impotente. Lo scompartimento si trasforma in un luogo traumatico nella stessa misura in cui esso rende possibile il piacere procurato dal movimento meccanico. L’isolamento dello scompartimento sottrae ciò che in esso sta avvenendo agli sguardi di chi è all’esterno. Il viaggiatore, una volta che vi si è sistemato, è solo con se stesso o con i suoi compagni di viaggio per tutta la durata del viaggio, o almeno durante il tragitto tra due stazioni. Non c’è comunicazione con il mondo esterno. Tutto ciò comporta pericoli reali. Nel 1839, l’ingegnere inglese Peter Lecount scrive: «Se chi sta viaggiando su una strada normale è improvvisamente colto da malore o gli capita qualcos’altro, non ha che da sporgere la testa fuori dal finestrino della carrozza e dire che cosa non va; la carrozza può fermarsi ed egli può ottenere l’assistenza necessaria. Ma che cosa accade quando si viaggia in ferrovia? Se non ha la fortuna di trovarsi nelle dirette vicinanze del controllore, il viaggiatore può gridare quanto vuole ma nessuno gli viene in aiuto, anche se sta per morire; anzi, è tanto meno in condizione di ricevere questo aiuto quanto piú ne ha bisogno ».


«Anche le grida piú penetranti vengono coperte dal rumore delle ruote che girano, e in un treno che sfreccia alla velocità di sessanta miglia all’ora, è facile che si verifichi un omicidio, se non addirittura azioni brutali ancora peggiori. Quando poi il treno si ferma il controllore può trovarsi di fronte, anziché a un vagone di seconda classe, a un campo di battaglia. E non stiamo esagerando».


Il perfetto isolamento ottico e acustico dello scompartimento rispetto al resto del treno, l’impossibilità di salirvi durante il viaggio (fino agli anni sessanta del secolo scorso anche agli scompartimenti dei treni espresso si può accedere dall’esterno soltanto attraverso gli sportelli laterali, e manca qualsiasi intercomunicazione tra di essi) fa sí che i rapporti tra i passeggeri non siano piú caratterizzati soltanto da un silenzio imbarazzante, ma da una potenziale minaccia reciproca. Lo scompartimento diventa un nuovo teatro di delitti che affascina la fantasia del XIX secolo, di delitti consumati senza che i viaggiatori degli scompartimenti attigui odano o vedano nulla. «Anche le grida piú penetranti vengono coperte dal rumore delle ruote che girano, e in un treno che sfreccia alla velocità di sessanta miglia all’ora, è facile che si verifichi un omicidio, se non addirittura azioni brutali ancora peggiori. Quando poi il treno si ferma, come stabilisce l’orario, il controllore può trovarsi di fronte, anziché a un vagone di seconda classe, a un campo di battaglia. E non stiamo esagerando »


Dramma nello scompartimento.


Nell’edizione del gennaio 1861 delle «Annales d’Hygiène Publique », sotto il titolo Pericoli per i passeggeri delle ferrovie, viene descritto quanto segue: «Il 6 dicembre, il treno di Mulhouse entrò nella stazione di Parigi alle 3 e 15. I passeggeri lasciarono frettolosi i loro scompartimenti. Solo di uno restò chiusa la porta, fino a che non l’aprí un impiegato delle ferrovie. Quale non fu la sua sorpresa quando, tra i sedili, vide un uomo lungo disteso! Invita l’uomo a scendere dalla carrozza. Nessuna risposta. Nella luce incerta della lampada dello scompartimento, schermata da un paralume di seta verde, stenta a vedere ciò che gli sta intorno. Allunga una mano e la ritrae imbrattata di sangue. Informa il capostazione, il commissario di polizia, e ben presto ci si rende conto che si è di fronte a un cadavere in una pozza di sangue».

Il morto è il presidente del tribunale Poinsot. Come risulta dalla successiva inchiesta, egli aveva diviso lo scompartimento con un unico compagno di viaggio, il suo assassino. Di quest’ultimo si sono perse le tracce. Il caso suscita un interesse insolito: «L’interesse carico di angoscia che tutta Parigi mostra per la morte spaventosa di Monsieur Poinsot è straordinario - riferisce il 9 dicembre il giornale di lingua inglese pubblicato a Parigi “Galignani’s Messenger” - e suscita in tutti una certa inquietudine l’idea che sia stato tanto facile consumare questo delitto».


«L’assassinio di Monsieur Poinsot continua a suscitare l’interesse dell’opinione pubblica. [...] Ognuno si sente colpito nella propria qualità di viaggiatore mortale. Si vedono milionari viaggiare in terza classe. Altri salgono ormai sul treno soltanto se accompagnati dal cameriere particolare, dal cocchiere, dalla cuoca. Chi non se lo può permettere è preda delle piú insopportabili angosce».


«È soprattutto strano, anzi inspiegabile, che i viaggiatori dello scompartimento attiguo non abbiano udito spari - cosí, l’8 dicembre, concretizza il diffuso interesse, carico di angoscia, per il caso Poinsot un articolo del “Journal des Débats” -, credono di aver udito soltanto un grido, ma anche di questo non sono del tutto sicuri».

Nei giorni che seguono la scoperta del delitto, i giornali parigini pubblicano racconti d’appendice dietro la cui facciata satirica sono riconoscibili le angosce piú profonde che questo omicidio rende attuali. Nel «Figaro» del 20 dicembre si trova la seguente proposta: «Un treno ben organizzato ha un vagone per fumatori e uno per signore che desiderino viaggiare sole. Per quale motivo non si può appendere a un vagone un cartello con su scritto Riservato agli assassini? Ma io li conosco questi signori; probabilmente non apprezzano che li si chiami cosí ».

Nel «Figaro» del 25 dicembre si legge una descrizione dell’atmosfera di viaggio che non rivela immediatamente la propria intenzione satirica: «L’assassinio di Monsieur Poinsot continua a suscitare l’interesse dell’opinione pubblica. [...] In questa partecipazione generale c’è una buona dose di egoismo. Ognuno si sente colpito nella propria qualità di viaggiatore mortale. Per gli impiegati della società ferroviaria, questo dramma si è trasformato in commedia. Si vedono milionari viaggiare in terza classe. Altri salgono ormai sul treno soltanto se accompagnati dal cameriere particolare, dal cocchiere, dalla cuoca. Chi non se lo può permettere è preda delle piú insopportabili angosce ».

Segue, come documento satirico di questa imbarazzante situazione, un dialogo immaginario che si svolge in uno scompartimento tra due persone in viaggio da sole: «Nei giorni scorsi, in uno scompartimento di prima classe del treno Bruxelles-Parigi, erano seduti l’uno di fronte all’altro due signori, entrambi imbacuccati fino alla punta dei capelli in mantello e sciarpa. Dopo essersi osservati con sospetto l’un l’altro per un bel po’, uno dei due rivolse la parola al compagno di viaggio: “Monsieur, - disse -, mi considero oltremodo fortunato di incontrare in prima classe un onest’uomo. Mi compiaccio che il caso ci abbia fatti incontrare qui, perché avrei anche potuto diventare vittima di un delitto. Ma io sono un uomo prudente. Non mi sono portato né soldi, né orologio, né gioielli. Ho indosso dei vecchi pantaloni che non valgono nulla, per non suscitare bramosie, e per questo mantello un mercante di abiti usati non mi ha voluto dare nemmeno quaranta soldi. Senza contare che un potenziale aggressore avrebbe l’accoglienza che si merita. Vede, qui ho un coltello catalano, due pistole da sella e un revolver che ha tante canne quante un organo di monsieur Alexandre. Nel carniere ho polvere e pallottole. Sono in grado di sparare oltre 110 colpi prima che...”, “Proprio come me, monsieur - replicò l’altro viaggiatore -. Io faccio finta di dormire, ma è soltanto un trucco. Quando russo, quello è il momento meno adatto per aggredirmi. Lei capisce, l’aggressore diventa imprudente... A lei, che è un onest’uomo, posso confidare tutto - e nel momento in cui il manigoldo vuole uccidermi, io gli bucherello il petto...” “ Con che cosa, monsieur?” “Semplicissimo, monsieur, guardi. Da monsieur Godillot, al Bazar des Voyages, mi sono fatto fare una corazza provvista di trenta punte di baionetta. Guardi, uno strumento ingegnosissimo... Non ho che da abbracciare con forza il mio avversario, e viene bucherellato come un colabrodo”. Rassicurati dalle loro reciproche rivelazioni, ben presto i due viaggiatori si addormentarono con la mano alla pistola ».

Per vedere quanto sostanzialmente realistico sia questo schizzo satirico del nuovo rapporto tra i viaggiatori di prima classe, è sufficiente uno sguardo a testi nient’affatto satirici di pochi anni dopo. Quando, nel 1864, si verifica un altro omicidio nello scompartimento di un treno inglese, il fatto viene commentato in forma sia satirica che ufficiale. Una serie di caricature del «Punch» ha come tema la reciproca diffidenza dei passeggeri della prima classe, che in un rapporto ufficiale viene cosí descritta: «Un autentico panico si è impadronito di chi viaggia in treno. Le signore, che naturalmente non possono decidere sul momento quale compagno di viaggio scegliersi come paladino e quale fuggire, evitano perciò qualsiasi contatto; e, dal canto loro, i signori, ferrovieri compresi, si rifiutano di viaggiare in uno scompartimento da soli con una signora. Considerano un imperativo della saggezza evitare in tal modo il rischio di venire ricattati e accusati di molestia, se non addirittura di violenza».

Questo quadro della situazione si ritrova nella perizia ufficiale che nel 1865, per incarico della Camera dei Comuni, vaglia le possibilità tecniche di creare una comunicazione tra i vari scompartimenti in modo da evitare altri delitti. Studi analoghi vengono intrapresi in Francia e Germania. Dietro la ricerca febbrile di un sistema per ovviare all’isolamento dello scompartimento, si cela l’incubo che sia lo scompartimento stesso a provocare il delitto. Quest’idea si ritrova anche in trattati puramente tecnici, come ad esempio nel libro Le matériel roulant des chemins de fer au point de vue du confort et de la sécurité des voyageurs di Ernest Dapples: « Se non si viaggia soli, si hanno uno o piú compagni. Se se ne ha soltanto uno, cosa che spesso non si può evitare [...], possono verificarsi inconvenienti di varia specie, fino all’aggressione e addirittura all’omicidio, come purtroppo hanno dimostrato i fatti di cui tutti sono a conoscenza».

Ancora nel 1870 nel Handbuch für spezielle Eisenbahn-Technik si legge: «Il passeggero è cosí felice di trovare un coupé libero, ma è cosí infelice di trovare anche un compagno di viaggio che lo derubi quando sta dormendo, o addirittura lo uccida e lo getti dal vagone, un pezzo dopo l’altro, senza che il personale del treno noti qualcosa».


Provocata dal delitto Poinsot in Francia nel 1860 e dal delitto Briggs in Inghilterra nel 1864 - eventi che si possono definire angosciosi per l’intera Europa -, ha inizio la ricerca di espedienti per porre fine all’isolamento dello scompartimento. Il fatto che due delitti, verificatisi a quattro anni di distanza l’uno dall’altro e in due paesi diversi, avessero potuto provocare una psicosi di tali dimensioni la dice lunga sul ruolo dello scompartimento nella vita psichica del XIX secolo, quanto il fatto che, in generale, la cosa durò fino al momento in cui ci si rese conto della non funzionalità del sistema a scompartimenti. Ciò che sorprende nella storia dello scompartimento ferroviario è che esso sia rimasto immutato per tanto tempo, o sia sopravvissuto in forma modificata sino ai giorni nostri, benché fosse, fin dai primi tempi, cosí manifestamente privo di funzionalità. Mentre, in linea di principio, si riconobbe sin dall’inizio la diversità della strada ferrata rispetto a quella normale, per i vagoni passeggeri si restò ostinatamente fedeli alla forma tradizionale della carrozza. A quanto mi è dato sapere, in Europa non si procedette a studi teorici, o magari a esperimenti pratici, al fine di creare un vagone passeggeri che avesse una forma adeguata alla modernità tecnica della ferrovia, un vagone, cioè, che si fosse completamente emancipato dalla forma a scompartimenti, derivata dalla carrozza a cavalli. La proposta che piú si avvicina a questa «utopia del vagone» - cosí la si dovrebbe definire - è quella resa nota dal pubblicista scozzese MacLaren nel 1825. In essa sembra mancare qualsiasi traccia che evochi la forma della carrozza. MacLaren propone un grande locale a forma di nave, «una forma analoga a quella del piroscafo o della chiatta da canale, sarebbe la piú confacente». Ma per vie traverse ricompare una soluzione facilmente riconoscibile come sistema a scompartimenti. «Potrebbe essere - dice MacLaren a proposito del grande locale a cui sta pensando - una galleria alta sette piedi, larga otto, lunga cento, e suddivisa in dieci locali separati, ognuno lungo dieci piedi. Queste parti sarebbero collegate fra di loro con elementi di raccordo orizzontale, in modo che il treno possa curvarsi conformemente al tratto di ferrovia che sta percorrendo. Uno stretto passaggio coperto, montato su un fianco sopra le ruote, potrebbe servire all’intercomunicazione di tutto l’insieme».

Si nota qui, da un lato, l’idea di un grande locale su ruote, una nave di terra, per cosí dire - ed effettivamente una proposta di questo tipo viene avanzata poco tempo dopo in America -, ma poi, dall’altro, di nuovo la suddivisione del grande locale in una serie di locali piú piccoli, simili a scompartimenti. Questi, per la verità, hanno il vantaggio di essere collegati fra di loro; un’anticipazione della soluzione al problema della comunicazione che verrà attuata quarant’anni dopo.

Il progetto non fu mai realizzato. Tutto restò fermo alla fila di scompartimenti non collegati fra di loro, cosí com’era stata adottata per la prima volta sulla linea Manchester-Liverpool, e come si mantenne nei cinquant’anni che seguirono, quale vagone standard europeo, malgrado tutti i suoi evidenti difetti e pericoli. Questa sopravvivenza tenace di una forma nient’affatto pratica appare tanto piú inspiegabile in quanto, dal 1840 circa, con la carrozza a corridoio di tipo americano, anche in Europa si conosce un tipo di vagone assolutamente funzionale sotto il profilo tecnico. La carrozza americana presenta tutti i vantaggi, la cui assenza è invece una caratteristica del vagone europeo. Grazie agli spazi aperti, sia il riscaldamento che i servizi igienici - problemi tecnici irrisolvibili con il sistema a scompartimenti - sono tanto irrilevanti quanto è infondata, sempre grazie a questi spazi aperti, la paura di venire uccisi durante il viaggio.

Nel dibattito che ha inizio negli anni sessanta a proposito dello scompartimento, la carrozza americana sembra rappresentarne l’alternativa. Tuttavia, ad eccezione di alcune zone periferiche, essa non viene adottata in nessuno dei sistemi ferroviari europei. Il fatto che, a dispetto di tutti gli evidenti vantaggi, la carrozza americana venga considerata inadatta alla situazione europea, è da mettere in relazione con la psicologia del viaggiatore europeo. Questi, durante il viaggio, desidera essere lasciato in pace, come constatano concordemente le commissioni che in Inghilterra e in Francia si costituiscono per studiare il problema dello scompartimento. «I viaggiatori - cosí riferisce Dapples le conclusioni a cui è pervenuta la commissione francese - protesterebbero se dovessero trattenersi a lungo in vagoni pubblici come questi, esposti a ogni sorta di trambusto, chiasso e curiosità di gente estranea».

Le proposte tese a migliorare la comunicazione tra i vari scompartimenti, avanzate negli anni sessanta a seguito dei delitti che vi sono stati perpetrati, tengono conto di questo bisogno di tranquillità. Lo scompartimento resta immutato nella sostanza. Vengono presi in considerazione solo i sistemi di allarme, in modo da permettere agli occupanti dello scompartimento di chiedere aiuto in caso di pericolo imminente. Vengono proposti: una specie di megafono che attraversi il treno in tutta la sua lunghezza; una corda con la quale si possa azionare un campanello d’allarme, un sistema di specchi che permetta al personale del treno di vedere dentro gli scompartimenti; un sistema d’allarme elettrico. La soluzione piú semplice e piú efficace la propone la commissione francese, istituita nel 186I dopo il delitto Poinsot; essa consiste in piccoli spioncini montati nelle pareti divisorie degli scompartimenti: «Lo spioncino, che viene montato nella metà superiore delle pareti divisorie, offre, in una certa misura, i vantaggi di un collegamento effettivo tra i singoli scompartimenti. In alcuni casi esso sarà di grande aiuto per i passeggeri perché dissuade dalle cattive intenzioni e rappresenta un deterrente sia materiale che morale. Non limita né la comodità né l’autonomia dei viaggiatori che, tra l’altro, sono liberi di coprirlo se non vogliono che qualcuno li osservi. Inoltre i costi della finestrella sono molto ridotti, attraverso di essa non filtrano né le conversazioni dei passeggeri, né le correnti d’aria, né il fumo del tabacco».

Con questo spioncino, che in effetti fu adottato su molte linee ferroviarie e divenne ben presto oggetto di caricature, il problema d’attualità, che aveva dato l’avvio al dibattito intorno allo scompartimento - la paura di venire uccisi -, era risolto. Restava tuttavia insoluta la questione della comunicazione fisica reale, cioè della possibilità per i viaggiatori di spostarsi da scompartimento a scompartimento e da vagone a vagone, una necessità assolutamente imprescindibile per viaggi di una certa lunghezza (servizi igienici, riscaldamento, carrozze-ristorante e vagoni-letto, controllo dei biglietti durante il viaggio).

La forma piú primitiva di comunicazione fisica tra i vari scompartimenti, fu il predellino montato all’esterno e lungo quanto il vagone. La sua adozione generalizzata venne raccomandata dalla commissione francese, insieme con quella dello spioncino. Se lo spioncino rendeva possibile la comunicazione ottica tra scompartimenti attigui, il predellino doveva permettere al personale del treno l’accesso agli scompartimenti durante il viaggio. Che non si potesse pretendere dai viaggiatori l’uso di questa pericolosissima via d’accesso, causa ogni anno di numerosi incidenti mortali, è evidente.

 Una comunicazione effettiva, sicura e comoda tra i vari scompartimenti o tra i diversi vagoni di un treno, fu possibile soltanto per mezzo di un corridoio interno, cioè con l’adozione, almeno parziale, del sistema americano. Un primo tentativo in questa direzione è rappresentato, agli inizi degli anni sessanta, dalla carrozza adottata dalla ferrovia della Svizzera nord-orientale. In essa è mantenuta la suddivisione in scompartimenti, ma questi sono collegati fra di loro per mezzo di porte montate nelle pareti divisorie. Tuttavia, tale soluzione fu criticata con le stesse argomentazioni che avevano dissuaso dall’adottare il sistema americano. L’isolamento e la tranquillità dello scompartimento, si diceva, venivano turbati dall’andirivieni nel corridoio centrale. Heusinger von Waldegg, che alla fine risolse una volta per tutte il problema dello scompartimento, riassume tali critiche: «Nonostante i molti sostanziali vantaggi ottenuti con questi diversi tipi di intercomunicazione, non si può negare che all’obiezione principale mossa al sistema americano, che cioè i passeggeri sono disturbati di continuo dal corridoio centrale, non si è ovviato neppure con la suddivisione a coupé nei vagoni di prima e seconda classe, cosí come è innegabile che questo disturbo è sgradevolissimo per i viaggiatori, soprattutto durante la notte. Lo si può eliminare soltanto chiudendo con porte scorrevoli o con tende i singoli coupé che danno sul corridoio, oppure spostando il corridoio su un lato... ».

La soluzione definitiva di Heusinger von Waldegg consiste nello spostare il corridoio su un lato e nell’isolare da esso gli scompartimenti con porte scorrevoli. Ora l’accesso agli scompartimenti non avviene piú direttamente attraverso le porte laterali, ma indirettamente, mediante il corridoio laterale. Nel vagone si entra da porte situate alle due estremità, come avviene nel sistema americano. Questa organizzazione dello spazio nella carrozza passeggeri europea vige ancora oggi. In tal modo si è conservato lo scompartimento come locale di viaggio chiuso in sé e intimo. La comunicazione non ha luogo attraversando lo scompartimento, ma passandovi davanti. Il corridoio laterale non viene considerato come facente parte dello spazio di viaggio vero e proprio, ma costituisce un compromesso con la necessità tecnica di stabilire dei collegamenti. Non rappresenta un’evoluzione ulteriore dello scompartimento, ma del predellino, come risulta dalla prima pubblicazione del progetto di Waldegg. Per il pubblico europeo, il vero e proprio spazio di viaggio è e resta lo scompartimento. Per salvaguardarne la pace e l’isolamento, fonte di piacere e insieme di angoscia, il XIX secolo escogitò una sistemazione dello spazio mostruosa come quella di Waldegg. Quanto lo scompartimento sia espressione delle tradizioni e dei rapporti di classe europei, e quanto poco sia forma «naturale» del viaggio in ferrovia, lo dimostra l’evoluzione radicalmente diversa della ferrovia e della carrozza ferroviaria negli Stati Uniti.

 


Commenti

Post più popolari