24.Trinidad, ricordi e vita, da V.S. Naipaul, Una via nel mondo, Adelphi, 1994
Trinidad, ricordi e vita, da V.S. Naipaul, Una via nel mondo, Adelphi, 1994
V.S. Naipaul si mette in viaggio verso l’isola di Trinidad dove è nato.
Memoria storica e letteraria si intreccia con ricordi familiari o personali.
L’io narrante risale un fiume di montagna di un imprecisato paese sudamericano. Chi è l’io narrante? Chi potrebbe essere? Proprio a questo punto spesso il racconto si fa falso.
Fare di lui uno scrittore o un viaggiatore corrisponderebbe all’esperienza reale, però poi risulterebbero evidenti le parti di pura fantasia. Potrebbe essere un uomo che si fa passare per qualcun altro, un uomo in fuga? Sarebbe realistico, in quella regione: nel 1971 Michael X, l’uomo di punta del Potere Nero di Trinidad nella Guyana (un paese fisicamente analogo a quello in cui è ambientato il racconto) e s’inoltrò nell’interno, per nascondersi. E molti anni prima un componente della banda di Frank James, cercando rifugio fuori dai confini degli Stati Uniti, finì nella savana della Guiana, ai margini della foresta. (Così avevo sentito dire allorché vi ero andato a mia volta. La gente del posto era fiera di quella circostanza, e io stesso la trovavo elettrizzante, avendo v isto da ragazzino i film su Frank e Jesse James con Tyrone Power e Henry Fonda).
Un uomo in fuga sarebbe plausibile nel contesto. Ma la narrazione esige rigore: richiede continua pertinenza, e attribuire una simile personalità all’io narrante introdurrebbe qualcosa di superfluo e incongruo, qualcosa di avulso da ciò che dovrà accadere alla fine del viaggio.
Anziché un uomo in fuga, meglio un io narrante astuto e truffatore. Un rivoluzionario degli anni Settanta, diciamo. Un uomo che cerca di avvalersi dell’aiuto degli amerindi della parte interna del paese per rovesciare il governo africano sulla costa. Una situazione del genere non solo echeeggerebbe la realtà di più di un paese di quella regione, ma conterrebbe anche certi ironici riferimenti storici.
Alla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento, al tempo delle piantagioni olandesi e britanniche — gli olandesi e gli inglesi non erano più «intrusi» nel Mar dei Caraibi, ma potenze sovrane — coltivate da schiavi, sulla costa quando gli schiavi fuggivano verso l’interno, gli amerindi davano loro la caccia per assicurarsi la taglia. Adesso, cioè al tempo in cui si svolge la storia, gli africani che risiedono sulla costa, discendenti di quegli schiavi, hanno ereditato l’autorità dell’antico governo coloniale. Hanno una classe sociale facoltosa, istruita, professionale. Sono loro che governano, e, culturalmente, gli amerindi sono quello che erano loro, due secoli fa.
È naturale quindi che per l’io narrante — che non è solo un viaggiatore in cerca di nuovi panorami — tutto quello che vede sul fiume racchiuda molti significati.
A poppa della barca c’è un uomo armato di fucile da caccia. Di tanto in tanto spara agli uccelli che seguono l’imbarcazione, e dopo ogni sparo si fa una risatina. Forse proprio con quello stesso spirito ludico i suoi avi davano la caccia ai fuggiaschi africani. Armati non di fucile, allora, ma di frecce — delicate asticciole munite di una minuscola punta metallica, che sembravano tutt’altro che pericolose, quasi dei giocattoli. Le costruiscono ancora: le frecce e le faretre che si vedono nelle botteghe di prodotti dell’artigianato locale, sulla costa, sono identiche a quelle vere, di cinquanta, sessant’anni fa, che si possono vedere, ricoperte di polvere, nel vecchio, piccolo museo della capitale rimasto pressoché inalterato dall’epoca coloniale.
E forse, forse — pensa l’io narrante — quell’antico istinto, quell’antico atteggiamento nei confronti di tutto ciò che è africano può esser fatto rivivere adesso, in funzione di una causa più alta. Anche se quando la barca si ferma di fronte ai villaggi l’io narrante osserva i volti inespressivi, l’immobilità dei loro abitanti che si limitano a fissarlo (dopo l’agitazione del primo momento), e comincia a nutrire dei dubbi nei confrontare quella chiusa, passiva gente di fiume con gli africani della costa, con la vivacità delle rivoluzionarie comunità tribali di altri continenti.
La barca che una volta alla settimana fa la sua comparsa su quel fiume è fonte di eccitazione in tutti i villaggi. In un ombroso villaggio una donna scende dalla zigzagante rampa gialla con un a cesta di roba da mangiare per l’uomo armato di fucile: le varie cos sono sistemate in barattoli di latta e ciotole di legno e avvolte nella tela, ad una ad una. L’uomo le dice qualcosa senza guardarla, e dopo un po’ lei ridiscende la rampa con del pane di manioca, due metà di una grossa pagnotta rigida e bianchiccia, alta circa un centimetro, che sembra un po’ polistirolo granulato.
L’uomo rompe le due metà in pezzi più piccoli, che ficca, così come sono, tra le ciotole e i barattoli e i fianchi della cesta — come se l’abitudine di avvolgere il cibo della tela fosse una prerogativa femminile. In seguito, quando sono di nuovo sul placido fiume e giunge l’ora di pranzo, l’uomo estrae tutte le pietanze, e con improvvisa serietà, prepara i pezzetti di pane che dovranno esservi intinit. Il pane di manioca fa parte di ogni boccone che mastica: è il suo alimento base, più importante della carne.
L’io narrante ne chiede un po’, vuole assaggiarlo. L’uomo ride, contento di destare il suo interesse. Dopo la prima, inattesa sensazione di acidità, il pane è quasi insapore.
La luce cambia; muta l’umore del giorno. Il sole, a picco adesso, batte sulla zona compresa tra i muri di foresta, e il fiume si fa accecante. Cambia anche il fiume. L’uomo col fucile —-il pasto ormai concluso, le stoviglie sciacquate nel fiume e rimesse all’interno del cesto — adesso siede a prua, per avvistare gli ostacoil. Sta lì e osserva, perfettamente immobile.
L’io narrante, che ha ancora in bocca il sapore aspro del pane di manioca e il ricordo della sua consistenza granulosa, pensa agli alimenti base del mondo. Riso, farina e altri tipi di granaglie fanno parte delle graminacee. La manioca, cugina della poinsettia dalle foglie rosse, è un alimento speciale, miracoloso quasi. È una radice, e contiene del veleno. Dovevano aver impiegato secoli ineri, i remoti antenati di quella popolazione della foresta, dopo lo scambio di geni con gli antenati asiatici, per inoltrarsi nel continente fino a quelle foreste e a quei fiumi. Quanti altri secoli potevano esser passati prima che venisse scoperta la manioca? E quanti ancora prima che fossero inventati i semplici attrezzi che consentivano di eliminarne il veleno?
Riflettendo su questo, pensando a tutte le invenzioni fatte da quella gente così isolata, l’io narrante comincia a pensare anche all’antichità della foresta. Non nuova, non vergine. Quei villaggi lungo il fiume dovevano essere come le città del mondo classico, costruite nel corso dei millenni su ciò che era stato lasciati dai predecessori.
All’improvviso, poi, la luce muta di nuovo, acquista colore dopo il luccichio abbagliante; il viaggio sul fiume è ormai giunto alla fine. Sono circa le quattro, mancano ancora due ore al tramonto. Nella foresta si apre una nuova radura, con un tratto di sponda bassa, danneggiata, di un giallo polveroso — non l’alta sponda intatta dei villaggi indiani. Non c’è nessuna rampa costruita con cura, ma solo un certo numero di scivoli che si sgretolano. Dopo una giornata di fiume, sole, foresta e volti indiani, l’io narrante si sorprende nello scorgere due ragazzi banchi seminudi, muniti di arco e piccole frecce indiane, che si nascondono ditro all’erba e ai massi, sul bordo dell’acqua. Non sono le frecce delle botteghe di prodotti artigianali lungo la costa, queste: sono frecce vere, autentiche frecce della forsta. Per qualche istante è come esser riportai al principio di ogni cosa. Prima che la pelle bianca assumesse un altro colore, e i capelli gialli diventassero neri.
Non c’è nessun mistero: i due ragazzi appartengono al nuovo insediamento nella radura. Giocano agli indiani. L’io narrante è atteso.
Si fermerà qui per qualche giorno. L’insediamento non è la sua meta finale. Si riposerà, si procurerà delle guide, e proseguirà il suo viaggio. A piedi, per forza. Il fime non è navigabile oltre questo punto: più avanti ci sono i grandi massi e le rapide poco profonde.
L’insediamento è sede di una missione religiosa. Si tratta di una religione abbastanza recente, basata su quella cristiana. Si è imposta nel paese, sia lungo la costa, dove i suoi seguaci sono africani, sia nell’interno, dove si stanno convertendo parecchi amerindi.
Sulla costa, tra gli africani, riscuote molto successo perché promuove l’idea del volontariato come traffico a doppio senso, come forma di scambio internazionale. Il che significa che il paese non si limita ad accogliere volontari stranieri. Alcuni privilegiati tra i locali che accettano la religione possono essere inviati, come collaboratori volontari, all’estero — in Europa, negli Stati Uniti, in Canada, nell’Africa Occidentale, persino. Poiché ben pochi sulla costa possiedono i mezzi per viaggiare (e gran parte della popolazione nera ambisce a trasferirsi nei paesi del nord), sono moltissimi gli african i — alcuni dei quali sono parenti e amici dei politici locali — che aspirano a diventare volontari, per poi andare all’estero.
La Chiesa, quindi, esercirta una certa autorità, e in questo paese ufficialmente ostile ai bianchi, i volongari provenienti dall’estero godon o di notevole libertà. Si tratta di persone infiltrate dai rivoluzionari. La copertura è quasi perfetta: entrambi i gruppi hanno lo stesso genere d’impegno; entrambi parlano di fratellanza razziale, degli sprechi dei ricchi e dello sfuttamento dei poveri; entrambi sono seriamente convinti che la punizione sia imminente, che stia per trinfare la giustizia.
L’io narrante è uno di questi infiltrati. Non sa chi siano gli altri all’interno della missione. Gli si paleseranno a tempo debito. Adesso, al momento dell’arrivo, mentre si getta sulle spalle lo zaino e si lascia portar via come un prigioniero dai ragazzi con l’arco e le piccole, micidiali frecce indiane, si preoccupa solo di comportarsi come un autentico volontario religioso.
Viene condotto a un capanno situato proprio nel centro dello spiazzo. È di legno grezzo, ma sollevato a più di un metro da terra meidante pilastri fatti con dei rami, e domina facilmente le altre costruzioni, più piccole, appoggiate direttamente al suolo irregolare. Lo spiazzo è ancora cosparsi dei frammenti degli alberi abbattuti, sui quali sono visibili le tracce lasciate dal fuoco usato per eliminare la boscaglia, e nell’aria c’è ancora l’acre odore di qugli incendi. Su tre lati il muro di foresta, con molti alberi alti, sottili, dal tronco candido, sembra messo allo scoperto di recente.
L’io narrante si aspetta qualche forma di benvenuto dopo il lungo viaggio, ma il robuto uomo bianco, in jeans e maglietta scolorita, che esce dal capanno adbito a cucina posto dietro la costruzione centrale, dice semplicemente ai ragazzi: «Portatelo a casa sua». Ha un accento straniero, un accento dell’Europa centrale o orientale, cui si è sovrapposta un’inflessione americana o canadese, e l’io narrante non sa se il tono brusco sia dovuto a una scarsa conoscenza della lingua o a un atteggiamento aggressivo. Mentre l’io narrante si allontana l’uomo gli grida: «Qui si cena alle cinque e mezzo. È la regola».
Manca poco più di un’ora. La casupola alla quale viene portato l’io narrante è piccola e ha un pavimento irregolare. Quattro indiani sono seduti o accovacciati per terra, in mezzo ai loro fagotti. Uno impreca, un altro costruisce un giocattolo (uno zaino tribale), e gli altri due si limitano ad aspettare — la loro cena è in preparazione in qualche punto della missione pasivi e noncuranti come gli indiani sul fiume. Il capanno odora di corteccia d’albero, di segatura, di petrolio e di foglie in putrefazionere; e così come i colori di una scatola di acquerelli mescolati tra loro formano un marrone spento, tutti quegli odori, fondendos
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Trinidad, ricordi e vita
da V.S. Naipaul, Una via nel mondo, Adelphi, 1994
V.S. Naipaul si mette in viaggio verso l’isola di Trinidad dove è nato. Memoria storica e letteraria si intreccia con ricordi familiari o personali.
L’io narrante risale un fiume di montagna di un imprecisato paese sudamericano. Chi è l’io narrante? Chi potrebbe essere? Proprio a questo punto spesso il racconto si fa falso.
Fare di lui uno scrittore o un viaggiatore corrisponderebbe all’esperienza reale, però poi risulterebbero evidenti le parti di pura fantasia. Potrebbe essere un uomo che si fa passare per qualcun altro, un uomo in fuga? Sarebbe realistico, in quella regione: nel 1971 Michael X, l’uomo di punta del Potere Nero di Trinidad nella Guyana (un paese fisicamente analogo a quello in cui è ambientato il racconto) e s’inoltrò nell’interno, per nascondersi. E molti anni prima un componente della banda di Frank James, cercando rifugio fuori dai confini degli Stati Uniti, finì nella savana della Guiana, ai margini della foresta. (Così avevo sentito dire allorché vi ero andato a mia volta. La gente del posto era fiera di quella circostanza, e io stesso la trovavo elettrizzante, avendo v isto da ragazzino i film su Frank e Jesse James con Tyrone Power e Henry Fonda).
Un uomo in fuga sarebbe plausibile nel contesto. Ma la narrazione esige rigore: richiede continua pertinenza, e attribuire una simile personalità all’io narrante introdurrebbe qualcosa di superfluo e incongruo, qualcosa di avulso da ciò che dovrà accadere alla fine del viaggio.
Anziché un uomo in fuga, meglio un io narrante astuto e truffatore. Un rivoluzionario degli anni Settanta, diciamo. Un uomo che cerca di avvalersi dell’aiuto degli amerindi della parte interna del paese per rovesciare il governo africano sulla costa. Una situazione del genere non solo echeeggerebbe la realtà di più di un paese di quella regione, ma conterrebbe anche certi ironici riferimenti storici.
Alla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento, al tempo delle piantagioni olandesi e britanniche — gli olandesi e gli inglesi non erano più «intrusi» nel Mar dei Caraibi, ma potenze sovrane — coltivate da schiavi, sulla costa quando gli schiavi fuggivano verso l’interno, gli amerindi davano loro la caccia per assicurarsi la taglia. Adesso, cioè al tempo in cui si svolge la storia, gli africani che risiedono sulla costa, discendenti di quegli schiavi, hanno ereditato l’autorità dell’antico governo coloniale. Hanno una classe sociale facoltosa, istruita, professionale. Sono loro che governano, e, culturalmente, gli amerindi sono quello che erano loro, due secoli fa.
È naturale quindi che per l’io narrante — che non è solo un viaggiatore in cerca di nuovi panorami — tutto quello che vede sul fiume racchiuda molti significati.
A poppa della barca c’è un uomo armato di fucile da caccia. Di tanto in tanto spara agli uccelli che seguono l’imbarcazione, e dopo ogni sparo si fa una risatina. Forse proprio con quello stesso spirito ludico i suoi avi davano la caccia ai fuggiaschi africani. Armati non di fucile, allora, ma di frecce — delicate asticciole munite di una minuscola punta metallica, che sembravano tutt’altro che pericolose, quasi dei giocattoli. Le costruiscono ancora: le frecce e le faretre che si vedono nelle botteghe di prodotti dell’artigianato locale, sulla costa, sono identiche a quelle vere, di cinquanta, sessant’anni fa, che si possono vedere, ricoperte di polvere, nel vecchio, piccolo museo della capitale rimasto pressoché inalterato dall’epoca coloniale.
E forse, forse — pensa l’io narrante — quell’antico istinto, quell’antico atteggiamento nei confronti di tutto ciò che è africano può esser fatto rivivere adesso, in funzione di una causa più alta. Anche se quando la barca si ferma di fronte ai villaggi l’io narrante osserva i volti inespressivi, l’immobilità dei loro abitanti che si limitano a fissarlo (dopo l’agitazione del primo momento), e comincia a nutrire dei dubbi nei confrontare quella chiusa, passiva gente di fiume con gli africani della costa, con la vivacità delle rivoluzionarie comunità tribali di altri continenti.
La barca che una volta alla settimana fa la sua comparsa su quel fiume è fonte di eccitazione in tutti i villaggi. In un ombroso villaggio una donna scende dalla zigzagante rampa gialla con un a cesta di roba da mangiare per l’uomo armato di fucile: le varie cos sono sistemate in barattoli di latta e ciotole di legno e avvolte nella tela, ad una ad una. L’uomo le dice qualcosa senza guardarla, e dopo un po’ lei ridiscende la rampa con del pane di manioca, due metà di una grossa pagnotta rigida e bianchiccia, alta circa un centimetro, che sembra un po’ polistirolo granulato.
L’uomo rompe le due metà in pezzi più piccoli, che ficca, così come sono, tra le ciotole e i barattoli e i fianchi della cesta — come se l’abitudine di avvolgere il cibo della tela fosse una prerogativa femminile. In seguito, quando sono di nuovo sul placido fiume e giunge l’ora di pranzo, l’uomo estrae tutte le pietanze, e con improvvisa serietà, prepara i pezzetti di pane che dovranno esservi intinit. Il pane di manioca fa parte di ogni boccone che mastica: è il suo alimento base, più importante della carne.
L’io narrante ne chiede un po’, vuole assaggiarlo. L’uomo ride, contento di destare il suo interesse. Dopo la prima, inattesa sensazione di acidità, il pane è quasi insapore.
La luce cambia; muta l’umore del giorno. Il sole, a picco adesso, batte sulla zona compresa tra i muri di foresta, e il fiume si fa accecante. Cambia anche il fiume. L’uomo col fucile —-il pasto ormai concluso, le stoviglie sciacquate nel fiume e rimesse all’interno del cesto — adesso siede a prua, per avvistare gli ostacoil. Sta lì e osserva, perfettamente immobile.
L’io narrante, che ha ancora in bocca il sapore aspro del pane di manioca e il ricordo della sua consistenza granulosa, pensa agli alimenti base del mondo. Riso, farina e altri tipi di granaglie fanno parte delle graminacee. La manioca, cugina della poinsettia dalle foglie rosse, è un alimento speciale, miracoloso quasi. È una radice, e contiene del veleno. Dovevano aver impiegato secoli ineri, i remoti antenati di quella popolazione della foresta, dopo lo scambio di geni con gli antenati asiatici, per inoltrarsi nel continente fino a quelle foreste e a quei fiumi. Quanti altri secoli potevano esser passati prima che venisse scoperta la manioca? E quanti ancora prima che fossero inventati i semplici attrezzi che consentivano di eliminarne il veleno?
Riflettendo su questo, pensando a tutte le invenzioni fatte da quella gente così isolata, l’io narrante comincia a pensare anche all’antichità della foresta. Non nuova, non vergine. Quei villaggi lungo il fiume dovevano essere come le città del mondo classico, costruite nel corso dei millenni su ciò che era stato lasciati dai predecessori.
All’improvviso, poi, la luce muta di nuovo, acquista colore dopo il luccichio abbagliante; il viaggio sul fiume è ormai giunto alla fine. Sono circa le quattro, mancano ancora due ore al tramonto. Nella foresta si apre una nuova radura, con un tratto di sponda bassa, danneggiata, di un giallo polveroso — non l’alta sponda intatta dei villaggi indiani. Non c’è nessuna rampa costruita con cura, ma solo un certo numero di scivoli che si sgretolano. Dopo una giornata di fiume, sole, foresta e volti indiani, l’io narrante si sorprende nello scorgere due ragazzi banchi seminudi, muniti di arco e piccole frecce indiane, che si nascondono ditro all’erba e ai massi, sul bordo dell’acqua. Non sono le frecce delle botteghe di prodotti artigianali lungo la costa, queste: sono frecce vere, autentiche frecce della forsta. Per qualche istante è come esser riportai al principio di ogni cosa. Prima che la pelle bianca assumesse un altro colore, e i capelli gialli diventassero neri.
Non c’è nessun mistero: i due ragazzi appartengono al nuovo insediamento nella radura. Giocano agli indiani. L’io narrante è atteso.
Si fermerà qui per qualche giorno. L’insediamento non è la sua meta finale. Si riposerà, si procurerà delle guide, e proseguirà il suo viaggio. A piedi, per forza. Il fime non è navigabile oltre questo punto: più avanti ci sono i grandi massi e le rapide poco profonde.
L’insediamento è sede di una missione religiosa. Si tratta di una religione abbastanza recente, basata su quella cristiana. Si è imposta nel paese, sia lungo la costa, dove i suoi seguaci sono africani, sia nell’interno, dove si stanno convertendo parecchi amerindi.
Sulla costa, tra gli africani, riscuote molto successo perché promuove l’idea del volontariato come traffico a doppio senso, come forma di scambio internazionale. Il che significa che il paese non si limita ad accogliere volontari stranieri. Alcuni privilegiati tra i locali che accettano la religione possono essere inviati, come collaboratori volontari, all’estero — in Europa, negli Stati Uniti, in Canada, nell’Africa Occidentale, persino. Poiché ben pochi sulla costa possiedono i mezzi per viaggiare (e gran parte della popolazione nera ambisce a trasferirsi nei paesi del nord), sono moltissimi gli african i — alcuni dei quali sono parenti e amici dei politici locali — che aspirano a diventare volontari, per poi andare all’estero.
La Chiesa, quindi, esercirta una certa autorità, e in questo paese ufficialmente ostile ai bianchi, i volongari provenienti dall’estero godon o di notevole libertà. Si tratta di persone infiltrate dai rivoluzionari. La copertura è quasi perfetta: entrambi i gruppi hanno lo stesso genere d’impegno; entrambi parlano di fratellanza razziale, degli sprechi dei ricchi e dello sfuttamento dei poveri; entrambi sono seriamente convinti che la punizione sia imminente, che stia per trinfare la giustizia.
L’io narrante è uno di questi infiltrati. Non sa chi siano gli altri all’interno della missione. Gli si paleseranno a tempo debito. Adesso, al momento dell’arrivo, mentre si getta sulle spalle lo zaino e si lascia portar via come un prigioniero dai ragazzi con l’arco e le piccole, micidiali frecce indiane, si preoccupa solo di comportarsi come un autentico volontario religioso.
Viene condotto a un capanno situato proprio nel centro dello spiazzo. È di legno grezzo, ma sollevato a più di un metro da terra meidante pilastri fatti con dei rami, e domina facilmente le altre costruzioni, più piccole, appoggiate direttamente al suolo irregolare. Lo spiazzo è ancora cosparsi dei frammenti degli alberi abbattuti, sui quali sono visibili le tracce lasciate dal fuoco usato per eliminare la boscaglia, e nell’aria c’è ancora l’acre odore di qugli incendi. Su tre lati il muro di foresta, con molti alberi alti, sottili, dal tronco candido, sembra messo allo scoperto di recente.
L’io narrante si aspetta qualche forma di benvenuto dopo il lungo viaggio, ma il robuto uomo bianco, in jeans e maglietta scolorita, che esce dal capanno adbito a cucina posto dietro la costruzione centrale, dice semplicemente ai ragazzi: «Portatelo a casa sua». Ha un accento straniero, un accento dell’Europa centrale o orientale, cui si è sovrapposta un’inflessione americana o canadese, e l’io narrante non sa se il tono brusco sia dovuto a una scarsa conoscenza della lingua o a un atteggiamento aggressivo. Mentre l’io narrante si allontana l’uomo gli grida: «Qui si cena alle cinque e mezzo. È la regola».
Manca poco più di un’ora. La casupola alla quale viene portato l’io narrante è piccola e ha un pavimento irregolare. Quattro indiani sono seduti o accovacciati per terra, in mezzo ai loro fagotti. Uno impreca, un altro costruisce un giocattolo (uno zaino tribale), e gli altri due si limitano ad aspettare — la loro cena è in preparazione in qualche punto della missione pasivi e noncuranti come gli indiani sul fiume. Il capanno odora di corteccia d’albero, di segatura, di petrolio e di foglie in putrefazionere; e così come i colori di una scatola di acquerelli mescolati tra loro formano un marrone spento, tutti quegli odori, fondendosi con quello acre lasciato dall’incendio della boscaglia, producono un afrore di tabacco vecchio.
Dopo un rapido bagno nel fiume — l’acqua è fresca: il sole sta tramontando rapidamente — per l’io narrante è ormai tempo di tornare al grande capanno. Lì ci sono otto uomini: tutti quanti si presentano come volontari, tutti quanti sono stranieri provenienti da diversi paesi; non c’è nessun ameridio. Perci: nonostante i jeans, le barbe e le tenute casual, nel grande capanno c’è un’atmosfera coloniale.
C’è per tutti un problema di lingua. Il tipo robusto dai modi bruschi, il capo della missione, viene dalla Cecoslovacchia. Non lo dice apertamente; lo si intuisce da ciò che dicono gli altri — si accenna alla città di Pilsen. Sua moglie, o la sua amica, l’unica donna seduta attorno al tavolo, senza dubbio la madre dei due ragazzi, non sa nemmeno una parola d’inglese.
i con quello acre lasciato dall’incendio della boscaglia, producono un afrore di tabacco vecchio.
Dopo un rapido bagno nel fiume — l’acqua è fresca: il sole sta tramontando rapidamente — per l’io narrante è ormai tempo di tornare al grande capanno. Lì ci sono otto uomini: tutti quanti si presentano come volontari, tutti quanti sono stranieri provenienti da diversi paesi; non c’è nessun ameridio. Perci: nonostante i jeans, le barbe e le tenute casual, nel grande capanno c’è un’atmosfera coloniale.
C’è per tutti un problema di lingua. Il tipo robusto dai modi bruschi, il capo della missione, viene dalla Cecoslovacchia. Non lo dice apertamente; lo si intuisce da ciò che dicono gli altri — si accenna alla città di Pilsen. Sua moglie, o la sua amica, l’unica donna seduta attorno al tavolo, senza dubbio la madre dei due ragazzi, non sa nemmeno una parola d’inglese.
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