21. Počitelj – Erzegovina (2014)
di Stefano Cammelli
Dall’alto della fortezza
di Počitelj, a fine giornata. Sotto di noi, nel fondo valle, il fiume Neretva.
Il silenzio dell’ora, il tramonto ormai iniziato, le rovine abbandonate della
fortezza e cittadina ottomana. Difficile sfuggire a qualcosa che assomiglia a
malinconia.
Bionda, giovane,
preparata: Đenita H. insegna a Sarajevo e per un giorno ha accettato di
accompagnarmi a Mostar, alla tekke* di Blagaj. Sediamo su un muretto prima di ripartire per Sarajevo.
“Sai, la guerra e tutto
quello di orribile che abbiamo dovuto vivere qui ha in qualche modo cancellato
tutto quello che eravamo, che siamo. La Bosnia e l’Erzegovina sono diventate
una questione di diritti umani, di difesa di una popolazione. Tutto giusto,
tutto doveroso. Ma qui c’era molto di più che non una popolazione da
proteggere. E anche ai miei amici serbi e croati io dico e vorrei dire… che
c’era una grandezza disponibile per tutti, capisci? Che senso ha rinunciare
alla bellezza e alla profondità di una cultura in nome di una contestabilissima
identità nazionale? Me lo spieghi? Sarebbe come se tu ti rifiutassi di parlare
inglese e di leggere Moby Dick perché sei italiano.”
Ha iniziato stamane a
Mostar, parlando di uno dei più grandi poeti della città, Ahmed Rushdi Mostari
(1637-1699), autore di una raccolta (divan) di poesie in cui compaiono
testi scritti in persiano.
Ha proseguito nella
bella dimora sufi di Blagaj, un gioco continuo di rimandi. Al tempo stesso
ubriacanti e seducenti. Si muove nello spazio geografico e nei tempi letterari
come se il suo sia un mondo senza confini e limiti di tempo.
“Queste persone
leggevano i testi di Rumi, il mistico di Konya. Ma sai anche tu che Rumi non
era il suo nome, Rumi stava a significare ‘il Romano’ perché come tale lo
vedevano gli orientali, un autore ormai occidentale. Dove sono i confini,
Stefano, dove sono in questo mondo che spazia dal Tajikistan alla Cina,
all’Adriatico? Come si fa a non comprendere che avere qui – lungo il corso
della Neretva, a due passi dalla costa che è Venezia - … avere qui la grandezza
della poesia e della cultura persiana è un’immensa possibilità? Come si fa a
non capirlo?”
Per più di quattro secoli – spiega – durante il dominio ottomano in Bosnia-Erzegovina – i letterati parlavano tre lingue. Il turco ottomano era la lingua ufficiale, dell’amministrazione e dell’istruzione. L’arabo era la lingua della teologia, del diritto e delle opere accademiche. Il persiano era la lingua della letteratura, della poesia e del sufismo.
“La ricchezza letteraria
di queste terre sembra quasi un faro, quello più occidentale. A est la
grandezza di Shiraz, a ovest Mostar e Sarajevo… un contributo imponente alla
letteratura dell’umanità, sviluppato in quattro lingue: turco ottomano, arabo,
persiano e bosniaco.”
Non si dà pace. Tortura
i capelli biondi che le ricadono continuamente sul viso. Scuote la testa: ora
guarda in lontananza, all’orizzonte. Ora fruga nervosamente nella borsa, alla
ricerca di un fazzolettino.
“Essere invitati a una
grande festa a Venezia o a Istanbul non preclude che tu possa gioire della
sagra del tuo paese. La cultura è condivisione, non è un confine. Si può essere
tutto – croati, cattolici, serbi, ortodossi – e godere ugualmente della poesia,
della letteratura.”
Non rispondo, io stesso
non capisco.
O
forse è necessariamente così, quando certi confronti sembrano improponibili e
uno teme di essere infinitamente piccolo rispetto a qualcosa di troppo più
grande. Non è facile vivere insieme a un grande padre, un grande professore,
una grande cultura. Alcuni temono di perdere sé stessi, hanno bisogno di
scappare. E più l’altro li insegue e cerca il dialogo, più scappano: irrigiditi
e impauriti.
* Tekkè s. turco [dal pers.
takyè, propr. «luogo di riposo», passato anche all’arabo takiyya], usato in
italiano al maschile. Nome dei conventi dove vivono in comune gli affiliati
alle confraternite religiose musulmane. (Treccani)
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