20. Arte buddhista in Xinjiang Pagode, dei e uomini
di Stefano Cammelli
Vicino a Korla, in una località mal visitata (anzi ignorata) ci sono le rovine dell’antica città carovaniera di Karashar. Sono mura di fango cotto al sole, mattoni così fragili da essere tornati terra in pochi secoli. Resta il perimetro della città: leggero dosso del terreno, a perdita d’occhio.
Di un emporio commerciale che nel V secolo non era più piccolo dell’attuale centro storico di Bologna non resta molto di più.
In mezzo, restaurato con notevole decisione, si alza la mole quadrata ed elegante di uno stupa buddhista. Ma ha poco dello stupa: l’intera costruzione ricorda piuttosto certi templi mazdeisti iranici, o addirittura gli ziggurat della Mesopotamia. Intorno, ben poca cosa in elevato, il perimetro di un monastero. Si riconoscono le mura esterne, i corridoi, le celle.
A Kuqa, alcune centinaia di chilometri ad ovest, altre spettacolari rovine. Sono quelle di Sibashi: c’è un palazzo che ha conservato la imponente cinta esterna. L’influenza iranica e sasanide è evidente. Di fianco, a poche centinaia di metri, un’altra costruzione imponente o, meglio, ciò che ne resta. Era un grande edificio circolare, probabilmente uno stupa buddhista. Come quello grande e immenso di Sarnath, sulle rive del Gange.
Nell’oasi di Turfan rovine di città immense ripropongono linguaggi più nuovi, o lontani.
Là uno stupa presenta tracce evidenti dell’arte gandharica che si sviluppò nel nord del Pakistan. Ciò che resta delle immagini che le nicchie custodivano e proteggevano (ma non c’è protezione dagli uomini) ha il drappeggio un po’ statico e grossolano di certa arte ellenistica di provincia. Altre volte, su un corpo coperto da vesti così leggere da perdere ogni consistenza fisica e non essere più né vesti né veli (ma non per questo consentendo di vedere il corpo) si staccano gioielli minuscoli e perfetti. Eleganti e lievi come quelli che l’arte indiana dei Gupta usò per ornare il corpo nudo, ascetico ma splendido, del Buddha. Ma la fattura del gioiello è cinese, colta e aristocratica, come quelli di una cortigiana tang.
Quale miracolo si è prodotto in questa terra?
A Kizil, gola di bellezza selvaggia che i nordamericani avrebbero da tempo trasformato in parco naturale, una parete di arenaria grigia alta alcune decine di metri è stata trasformata, molti secoli or sono, in una estesa area monastica. Grotte, a decine. Tutte affrescate. Anche Aurel Stein lavorò in questa regione e a lui si devono molte delle scoperte del Xinjiang.
Gli affreschi sono molto danneggiati, in molti casi sono quasi irriconoscibili. Ma quello che si vede è eloquente. Forse commovente.
Lo stesso miracolo visto altrove a livello architettonico si ripropone qui sul piano pittorico. Il tema è uno solo, il Buddha. Ma gli apsaras, i geni volanti che lo circondano, riempiono il cielo con la leggiadria di certe figure femminili della prima arte Han. Il drappeggio delle loro vesti presenta ombreggiature che hanno indotto gli storici dell’arte a parlare di influenza iranica. L’uso dei gioielli che ne ornano il collo, i busti, le braccia ricorda quello indiano dei Gupta. Ma il Buddha siede in trono come solo potrebbe un sovrano arsacide e presenta un’aura dorata intorno al volto che è di sicura discendenza iranica. È un insieme di stili e di sovrapposizioni che confonde, perde. Perché poi, a complicare ulteriormente la lettura di questi capolavori del IV-VII secolo, si inserisce il tralcio di vite, la palmetta, la foglia di acanto. Elementi propri della cultura ellenistica e a questa “rubati” dall’arte orientale. Ma resta il ricordo, nulla più. Perché quando il pittore di quel tempo ripresenta, con la rigidità di ogni icona, ciò che sa essere importante, e collega quindi con la maestà del Buddha l’elemento signorile per eccellenza, il fregio della vite, qualcosa si perde. Quel fiore che l’arte del Mediterraneo inserisce tra le rotonde volute della pianta rampicante qui non lo si è mai visto. E allora diventa astrazione, fiore irreale. Poi, col tempo, diventerà prima fiore di loto e poi peonia.
La via della seta non esiste più ma non c’è nulla di più eloquente di questi affreschi e di queste rovine per ricordare un’epoca superba e lontana. Coi cammelli, con le balle di seta e le giade, con le vesti e le spezie, viaggiavano anche le idee. E mentre le merci se ne sono andate verso gli estremi porti del Mediterraneo o del Mar della Cina, le idee si sono fermate anche qui. Hanno lasciato una traccia. Il segno di una presenza.
Idee come uomini, ma anche come religioni, come fedi. In queste oasi si vedono tracce di cristianesimo nestoriano, di islam, di confucianesimo, di mazdeismo, di buddhismo, di manicheismo, di taoismo.
Si compì qui il miracolo di fedi diverse che convivono e si accettano? Lo spirito del commercio e delle carovane, a cui queste città dovettero tutta la loro straordinaria ed ineffabile ricchezza, si trasmise anche alla religione? È probabile che non sia così, che non sia stato così. Ma se uno ripensa al passato di questi empori e li vede per quello che furono - città al servizio di un commerciante - perché meravigliarsi che assieme alle mura fortificate, l’acqua, i depositi, le banche, i luoghi di traduzione e interpretariato, abbiano voluto fornire ad ogni viandante il suo luogo di fede, di religione?
Chiese aperte a tutti, chiese per tutti. Le une di fianco alle altre. Assieme ai ristoranti, gli alberghi, i tribunali. Assieme ai casini, ai luoghi di danza e di ebbrezza. Tutto offrivano: ascesi e peccato. Tutto quello che poteva indurre una carovana a fermarsi, a restare.
È questo il miracolo che sorprende nel Xinjiang. Ma forse, proprio per questo, non sarebbe più giusto abbandonare questa denominazione così limitata e determinata per parlarne ancora, come un tempo, di Serindia?
Queste città non bisognerebbe lasciarle ai giapponesi, ai cinesi. Sono di tutti. Sono le città di chi sogna un mondo senza certezze e schematismi. Sono le città di tutta l’umanità.
L’opera dei giapponesi è elogiabile. Attaccati a questi luoghi come lo può essere un cattolico alla città santa di Gerusalemme o alle chiese romaniche di Borgogna e Lombardia, ne stanno curando a poco a poco il restauro. Lo fanno con gusto, con intelligenza. Ma lo fanno seguendo un loro percorso spirituale. Le città della Serindia sono le città attraverso cui il Buddhismo entrò in Cina e poi in Corea e Giappone. A questo pensano e in questa direzione finalizzano i loro aiuti e restauri.
Come certi studiosi di romanico francese anche molti giapponesi stentano a capire che fede e arte, religione e cultura, non sono la stessa cosa.
I cinesi, dal lato loro, sono indecifrabili. Cosa sta avvenendo esattamente dietro il superficiale atteggiamento strafottente, lavativo, menefreghista con cui mostrano o negano? Offrono alla vista dello studioso o segregano?
Parlano di protezione. Protezione dagli agenti atmosferici, protezione dal calore umano delle folle di turisti, protezione dalla incuria dei custodi. In nome della protezione chiudono, sbarrano, impediscono l’accesso. Sarebbe bello che fosse vero.
A Kizil una ragazza semplice, di bellezza perfetta ed elegante, quasi una Gong Li in miniatura, mi chiede al termine della visita se sono disposto a pagare qualcosa in più per vedere delle grotte che normalmente non vengono mostrate al pubblico.
Accetto. Entriamo in una stanza piccina, una cella di dimensioni veramente anguste affrescata in modo mirabile. Un’altra ragazza, giovane come la prima, ci apre la porta. Ha le mani impolverate e la cosa mi sorprende perché tutto dovrebbe fare credere che stia dipingendo una replica degli affreschi.
C’è la tela, ci sono i pennelli, i colori. C’è un disegno abbozzato sulla carta con indubbia capacità. Ma cosa ci fa quella polvere ocra sulle mani e sul maglione della ragazza? Nel soffitto, in un posto leggermente defilato e non immediatamente osservabile, un angelo dal volto paradisiaco, un angelo che è cinese ma anche iraniano, gandharico, indiano, ellenistico ... che è tutto allo stesso momento, è stato inquadrato da uno scalpello.
Come una cornice la lama ha ritagliato una mattonella dipinta di 30 centimetri per trenta. Ormai basta poco. Affondare un coltello sotto il dipinto e salterà, come una mattonella non incollata.
Le guardo. Chiedo cosa stanno facendo. Mostro l’affresco e ripeto ancora la domanda. Sorridono. Non sembrano per niente imbarazzate.
Oh, non vogliono portare via nulla, dicono, anzi. È proprio per impedire che a quell’angelo succeda quello che ho temuto che la piccola cella è chiusa al pubblico.
Esco e me ne vado verso la macchina. Con l’impressione di avere visto per ultimo il volto dell’apsara. Prima che prenda la via che lo porterà nella strada degli antiquari di Kyoto.
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