12. Colonialismo Portoghese

 Giuseppe Papagno

Andare “altrove” nei nuovi mondi

Diabasis, Reggio Emilia, 2003

L’avventura delle scoperte geografiche, vera apertura del mondo, ampliò le conoscenze degli europei in ambito geografico e umano, nella botanica e nel regno animale. Ma, contestualmente, mise in moto profondi processi di revisione delle proprie conoscenze, ribaltando concezioni e convinzioni da lungo tempo radicate. 
Giuseppe Papagno, seguendo le annotazioni dei roteiros, ovvero di coloro che tracciarono le rotte delle prime navi portoghesi, si addentra nel cuore stesso della percezione del diverso e traccia un quadro al tempo stesso affascinante e - spesso - divertente.



Da Lisbona a Calicut lungo la rotta delle Indie
I portoghesi protagonisti della scoperta della rotta alle Indie si colloca­no alla fine del Medioevo e non si dissociano dalla cultura propria di quel­l’età, anche se presentano proprie peculiarità. Di costoro qui interessano, in modo particolare, coloro che, per primi o tra i primi, stabiliscono l’ap­proccio ai nuovi spazi e alle nuove culture con i loro documenti pervenuti­ci, proprio perché le osservazioni dei primi assai spesso condizionano in gran parte la mentalità di coloro che li seguono. Si parlerà, dunque, dei portoghesi alla scoperta della via alle Indie Orientali usando, come documentazione di base, i due primi roteiros, che sono documenti per molti versi omologhi.
Si tratta di libri stesi dai cosmografi di bordo, che descrivono in modo assai particolareggiato, oltre al percorso nautico, anche tutto ciò che si “ve­de” lungo la rotta, con ogni sorta di osservazione geografica e umana, e che dovevano rappresentare il vademecum indispensabile per coloro che li avrebbero poi seguiti sulle medesime rotte.
I primi roteiros, dunque, mescolano le osservazioni sulla rotta a quelle dell’ambiente umano. Quelli successivi acquistano sempre più, invece, un carattere più strettamente tecnico e nautico, lasciando ad altre autorità (viceré, governatori, feitores...) la stesura di quelle notizie che riguardano popolazioni, usi e costumi, problemi commerciali ed economici e così via.
Prima di entrare direttamente nel merito, è necessario restituire un sia pur breve profilo della storia in cui si collocano i protagonisti. Come si presenta all’epoca il paese da cui partono quei portoghesi, che tracciano per primi la rotta marittima per le Indie Orientali? In sintesi, la popolazione del Portogallo, tra la fine del XIV e la fine del XV secolo, ha dovuto af­frontare tre ordini di problemi, e cioè:
- convivere in uno stesso spazio con gente di diversa etnia, cultura e reli­gione (mori ed ebrei);
- soddisfare le grandi esigenze di una vasta nobiltà in difficoltà per i suoi bassi redditi in conseguenza dei vuoti creati dalla peste e dei più alti salari, pur in presenza di tanta terra disponibile ma con pochi uomini disposti a coltivarla e con scarsa tecnica produttiva;
- combinare al meglio il patrimonio economico, tecnico e scientifico esistente per mantenere intatta una costituzione sociale e politica alquanto fragile in virtù delle forti dinamiche interne circa la divisione della ricchezza disponibile.
Circa il primo punto - la convivenza con mori ed ebrei - dopo secoli di relazioni sempre precarie ma anche fertili, la situazione precipitò a fine XV secolo. Nel 1496, sugli attoniti e atterriti ebrei portoghesi e su quelli spagnoli, da poco immigrati perché espulsi nel 1492 dalla Castiglia, così come sui mori, piovve letteralmente il battesimo forzato nelle piazze di tutto il paese. Da quel momento, almeno formalmente, in Portogallo vi fu una popolazione composta solo di cristiani, differenziati in vecchi e nuovi, e non più di cristiani, ebrei e mori. In tale modo, il paese diventò apparentemen­te omogeneo dal punto di vista dell’appartenenza sociale rispetto al salto qualitativo che stava per intraprendere.

Quanto al secondo - le esigenze di ricchezza della nobiltà a fronte di bassi redditi -, se ne tentò, ma piuttosto vanamente, per tutto il XV secolo la soluzione con la guerra, sia con l’espansione territoriale nella penisola iberica a spese della Castiglia, sia nel Marocco. Una variante di questa scelta fu appunto quella seguita dal principe Enrico il Navigatore, che spostò la conquista dalla terra confinante e dal Marocco, specie dopo la sfortunata spedizione di Tangeri del 1437, al mare, inviando caravelle nell’Atlantico Meridionale a sud delle coste marocchine. I viaggi di scoperta, che iniziano sulla soglia del 1440, hanno dunque questa matrice interna assai importante.
Circa il terzo punto, invece - vale a dire la combinazione ottimale del patrimonio economico, tecnico e scientifico per sostenere una struttura politico-sociale fragile -, la realizzazione avviene empiricamente (...) proprio sul mare con le navigazioni atlantiche. Gli apporti tecnico-scientifici sono opera soprattutto di matematici, astronomi, geografi, cartografi, velai e costruttori navali ebrei ed arabi, mentre quelli economici e commerciali fanno affidamento sull’esperienza degli ebrei, dei genovesi, dei piacentini e dei fiorentini che si stanziano a Lisbona. Il contributo di tutti costoro, as­sieme alla pratica dei marinai lusitani in mare aperto, fa del Portogallo il paese in cui più che altrove sono avanzate la tecnica e la conoscenza della navigazione d’altura, assieme ad una certa capacità di sfruttare in modo economico i nuovi spazi che si aprono nel sud Atlantico.

La spinta all’allargamento dello spazio economico tramite la conquista per via marittima è stimolata da Enrico, ma anche dal fratello maggiore Dom Pedro che scopre le Azzorre, ed è condotta sul mare dalla nobiltà di secondo rango. Certo, le scoperte non sono un atto gratuito. Di fatto, tutti costoro sono uniti dal desiderio di allargare le loro disponibilità economi­che e ciò costituisce la molla fondamentale per la continuazione delle scoperte. Se però queste divengono possibili, ciò avviene solo per l’intreccio tra conoscenze e tecniche di navigazione, che si producono proprio allora per l’esistenza di una diversità di culture nella penisola iberica. Quando queste vengono penalizzate con le conversioni forzate al cristianesimo, esse hanno già prodotto i loro principali effetti, anche se conseguenza di questo atto violento sarà per tutta la penisola un blocco nella crescita culturale da questo momento in avanti.
È da considerare attentamente, quindi, l’importanza di tale incontro-scontro delle diversità etniche, culturali e religiose, in cui da secoli la popo­lazione portoghese si ritrova. Tale abitudine al “diverso” nel proprio spa­zio costituisce, in un certo senso, una sorta di vantaggio nell’affrontare al­tre popolazioni nei nuovi spazi.

I roteiros di Duarte Pacheco Pereira e di Álvaro Velho (o João de Sà?)
Vasco da Gama compie il viaggio che lo porta da Lisbona a Calicut e ritorno tra il maggio del 1497 e l’agosto del 1499. La navigazione del porto­ghese inizia cinque anni dopo che Colombo ha toccato gli avamposti dell’America. Il “mondo” diverso, dunque, è già entrato in Europa ed è materia ampiamente discussa. Occorre, però, ricordare che anni prima del viaggio colombiano i portoghesi erano arrivati alle foci del Congo nel 1481 e, ancora, che nel 1486 Bartolomeo Dias doppia già il Capo, prima denominato Cabo Tormentoso, per l’incontro tempestoso delle acque di due oceani, e poi ribattezzato, in modo più augurale per i futuri viaggi, Cabo de Boa Esperança.
A quell’epoca, però, i portoghesi hanno già al loro attivo la creazione di fattorie ad Arguin, nell’attuale Mauritania, alle isole di Capo Verde, nel Ghana e a São Jorge da Mina (attuale Benin). Hanno, inoltre, stabilito relazioni amichevoli con i regni del Benin e del Manicongo. In trent’anni, circa, dalla scoperta dell’arcipelago di Capo Verde, effettuata dal veneziano Alvise da Ca’ da Mosto nel 1454, sino al viaggio di Bartolomeo Dias al Capo, essi hanno viaggiato lungo queste coste, commerciato e stabilito contatti con le popolazioni costiere, a volte pacifici altre, invece, meno e con forte diffidenza reciproca ed altre ancora violenti, specie per la cattura di schiavi, di cui già esiste un fiorente commercio in Portogallo. Hanno, dunque, già acquisito molte conoscenze geografiche, umane ed economiche che ne fanno un paese europeo più di altri ricco nell’esperienza con spazi diversi.

Alla fine degli anni Settanta del secolo comincia ad essere seriamente valutata la possibilità di arrivare ai paesi dell’Oriente, prima navigando a sud lungo il continente africano e poi, doppiato il Capo di Buona Speranza, con rotta verso nord costeggiando il versante opposto del continente. Il viaggio di Bartolomeo Dias ne è la prima dimostrazione, soprattutto per il tipo di navigazione effettuata, tutta in alto mare da Lisbona fino quasi al Capo, mentre fino ad allora le caravelle avevano navigato solo lungo le coste. Ciò spiega l’aperta opposizione mostrata dai sovrani portoghesi, specie da Giovanni II, alle idee proposte loro da Cristoforo Colombo di navigare ad Occidente per pervenire ad Oriente. Con il viaggio di Dias, infatti, l’Oriente era già a portata di mano.
Vasco da Gama parte, infatti, con la piena consapevolezza di questa possibilità ed il suo viaggio dall’isola di Santiago in Capo Verde sino alla prossimità del Capo, toccando assai probabilmente anche le coste del Brasile, è un capolavoro di navigazione astronomica, di conoscenza dei venti atlantici e delle correnti. Il viaggio verso Calicut è invece costiero, fin quasi a Mogadiscio, dove, con l’aiuto di un pilota arabo, Vasco da Gama si stac­ca dalla costa per affrontare la traversata dell’oceano Indiano fino alla costa del Malabar. Unico documento rimasto e giunto sino a noi di questo viaggio è la dettagliata relazione che ne fece allora Álvaro Velho, un soldato o marinaio a bordo della São Rafael, una delle tre navi della spedizione. Ma, proprio per il tipo di navigazione d’altura effettuata (Santiago-Baia di Sant’Elena, attuale Walvis Bay), il roteiro di Álvaro Velho non dice nulla sulle coste e sui popoli dell’Africa Occidentale, mentre abbonda di note sulla costa orientale del continente e sull’India.

Esmeraldo de Situ Orbis è il titolo enigmatico dell’altro roteiro, di poco posteriore, 1505 circa, di cui l’autore è Duarte Pacheco Pereira, che descrive gran parte delle coste dell’Africa Occidentale in modo assai accurato.
La scelta è caduta su questi due documenti per una molteplicità di ragioni.
I due roteiros, anzitutto, data la esigua distanza temporale che li separa, possono essere considerati un documento integrato che rivela l’approccio portoghese allo spazio compreso tra il Marocco e l’India anteriore.
Sono queste le prime relazioni (...) più propriamente geografiche sulle scoperte portoghesi della costa dell’Africa Occidentale e Orientale con in più parte dell’India Orientale, dove approdò Vasco da Gama.
In terzo luogo, perché, accanto alla preoc-
cupazione dominante e principale di offrire una visione geografica per la navigazione degli spazi scoperti, col misurare e descrivere i luoghi lungo la rotta, vi sono note economiche, antropologiche, politiche e religiose. In linguaggio nostro si dirà che oltre alla geografia della misura, cioè della quantità, sono qui annotate osservazioni di tipo qualitativo sui sistemi di vita incontrati.
Infine, perché questi documenti trattano di un’ampia gamma di popolazioni: i Mauri (o Mori) della Mauritania, i negri sudanesi dell’Africa Occidentale, i Bantu di quella Centrale, i Kiswaili e le popolazioni arabizzate delle coste orientali, gli indiani del Malabar e del Gujarat. Ciascuna di queste popolazioni presenta una propria cultura con un suo colore e con ciascuna di esse i portoghesi stabilirono contatti diversificati, che tenevano conto di una varietà di circostanze.
In definitiva, queste relazioni formano un ampio spettro, attraverso il quale è possibile valutare l’insieme dei rapporti che si sono instaurati sin dall’inizio tra aperture di nuovi spazi, loro misurazione quantitativa e qualitativa.
Per quanto attiene al dato quantitativo, il roteiro di Pacheco Pereira è un eccellente quadro del grado di maturità scientifica raggiunta a quell’e­poca dai portoghesi. (...)
L’apertura è una illustrazione minuziosa della visione della cosmografia dell’epoca - ancora tolemaica, naturalmente - seguita da una spiegazione sull’uso degli strumenti nautici ed astronomici assai accurata e, successivamente, dalla descrizione e collocazione nella latitudine di tutti i luoghi delle coste visionati ed elencati nel roteiro. Ad un confronto attuale - con ben altri mezzi più precisi di misurazione - i dati di Pacheco Pereira si rivelano in gran parte esatti, con scarti spesso impercettibili, prova sia dell’accuratezza delle osservazioni, sia della capacità acquisita nell’uso della strumentazione allora disponibile, sia, infine, di una notevole preparazione culturale. In più, l’autore cita le latitudini di tutte le principali città europee, per fare notare la profondità delle scoperte portoghesi a sud, anche qui con una precisione stupefacente.
Oltre a ciò, conta notare la nuova mentalità dell’autore, che non si la­scia sedurre dalle “descrizioni” degli antichi per accordare, invece, il privi­legio principale alla osservazione diretta. «E al di là di quel che s’è detto, l’esperienza - egli afferma con decisione -, che è madre delle cose, ci toglie dall’inganno e ci fa uscire da ogni dubbio». Ed ancora, a proposito dell’isola di Fernando Po e di tutte le terre poste a sud dell’equatore, egli annota che «l’esperienza ci fa vivere senza l’inganno degli abusi e delle favole che alcuni dei cosmografi antichi scrissero sulla descrizione della terra e del mare. Costoro dissero che tutta la terra al di sotto del circolo equinoziale era inabitabile per il gran calore del sole. E noi troviamo ciò falso e anzi contrario, perché oltre il rio Gabon... la terra è abitata da molta gente, che sono negri».
Costoro poi - continua - non sono negri per il grande calore del sole e perché vanno nudi mentre i bianchi hanno meno sole e sono vestiti. Tutti sono come nacquero ed il sole, quindi, non c’entra. Al di là del colore, il problema certo assai più importante per lui è, invece, «sapere se tutti costoro sono della generazione di Adamo», perché, se non lo fossero, cosa mai sarebbero? Uomini come “noi”, quindi, o... cos’altro? è, in effetti, l’inquietante interrogativo che si pone Duarte Pacheco.

Il sapere così dal vivo accumulato dall’esperienza fa poi dire a Pacheco Pereira che «in queste cose la nostra nazione di Portoghesi avanza tutti gli antichi e i moderni in tale misura che, senza biasimo, possiamo dire che, rispetto a noi, essi non seppero nulla».
Il valore dell’esperienza viene applicato, anche se con ben altri sistemi di misura, alle note sulle popolazioni, con osservazioni dirette, sempre fatte dal vivo.
Gli Alarves, nomadi berberi, che vivono lungo le coste atlantiche del Marocco, sono per lui tutti «muito mà gente», cioè gente molto cattiva. La ragione principale sta nel fatto che, essendo musulmani, «questa perversa gente è nemica della nostra santa fede cattolica e per questo i nostri re... fecero loro sempre guerra». Questi stessi Alarves, però, diventano assai meno cattivi ed anche più “rispettabili” poco oltre, perché portano nella fattoria portoghese di Arguim oro alluvionale dell’interno, schiavi negri catturati alle genti Mandinga e Gialofo, gomma arabica e cuoio lavorato, e scambiano queste merci con i tessuti por toghesi fatti nell’Algarve.
Più a sud, all’altezza dello sbocco in mare del fiume Senegal, si entra nella terra dei negri. «Tutta questa gente va nuda, tranne i fidalgos e gli uomini d’onore, che si vestono di camicie di cotone azzurre e celesti. Tutti costoro, assieme a quelli dei grandi regni di Mandinga e Tucolor e di altri re­gni, sono circoncisi e maomettani perché adorano nell’inganno la setta di Maometto. Questa gente è tutta viziosa; sono tutti poco amichevoli gli uni con gli altri, gran ladri e bugiardi, mai dicono la verità, grandi ubriaconi e molto ingrati; per quanto si faccia loro del bene, essi non l’apprezzano, so­no molto svergognati perché non smettono mai di chiedere.»
Gli abitanti di Capo Verde si comportano allo stesso modo e nel commerciare con essi, dunque, ciascuno deve guardarsi da questi negri, «perché sono gente molto cattiva».
Gli abitanti attorno al fiume Gambia, gente del regno Mandinga, sono anch’essi maomettani e vestono di cotone azzurro e celeste. Sono però «di grandi vizi, hanno tante mogli quante ne vogliono, la lussuria tra loro è totalmente cosa comune, gran ladri, ubriaconi, bugiardi e ingrati; tutti i mali che deve avere un cattivo, essi li hanno».
All’interno vi è un paese chiamato Tom abitato da un’altra popolazione.
Costoro - gli si dice - sono «gente mostruosa... hanno viso, denti e coda come i cani» e, forse per questo, sono assai schivi e non vogliono vedere altri uomini. Giudizio analogo per i negri tra il Rio Grande e la Sierra Leone, tutti maomettani che «non hanno vergogna né timore di Dio» e sono tutti circoncisi ma senza conoscerne la ragione. Qui «accade a volte che questi negri mangino altri uomini, per quanto ciò non sia così comune co­me in altre parti di questa Etiopia. [Costoro] Sono tutti idolatri e adorano feticci, dai quali si aspettano oracoli per sapere cosa fare».
Occorre guardarsi bene, poi ancora, dai Baulé della attuale Guinea ex portoghese, «gente molto cattiva che tenta di assaltare le navi con le loro barche». I negri di fronte all’isola di Palma «non sono circoncisi, vanno nudi, sono idolatri ed è gente senza dottrina [senno] né bontà».

A Capo Palmas, dove si scambia oro, meleghetta e schiavi, tutta la gen­te va nuda, non è circoncisa ed idolatra perché tutta pagana ed è anch’essa «di poca pace e viziosa». Stesso giudizio vale poi per i negri che vivono sul rio Alagoa.
Costeggiando la costa con rotta sud-ovest, si giunge al luogo dove sorge il ­castello di Sào Jorge da Mina. Qui - come denuncia lo stesso nome mina (miniera) - confluisce l’oro alluvionale estratto dalle popolazioni dell’interno dai fiumi dei due massicci montuosi del Futa Toro e del Futa Djalon. Oltre ad essere un “porto dell’oro”, il castello di São Jorge da Mina è anche piazza per il mercato di schiavi, in genere provenienti dal Sudan Occidentale, catturati e portati qui dalle tribù costiere. In tutto questo scam­bio, il guadagno che si ricava - afferma Pacheco Pereira - è di cinque a uno e più. L’assenza di giudizi da parte di Duarte Pacheco Pereira su queste popolazioni è, con ogni evidenza, connessa con l’utilità commerciale che esse procurano ai portoghesi.
I negri che vivono lungo la stessa costa, sebbene poco più oltre il forte, tornano nel suo giudizio ad essere ancora gente molto cattiva, che in più - gli vien detto - mangia persino gli uomini.
Si tocca di qui il regno di Benin, i cui abitanti per la maggior parte del tempo fanno guerra ai vicini per catturare schiavi, venduti poi a São Jorge da Mina. Per quanto il Benin sia stato denominato “regno” dei negri di quella terra, Pacheco Pereira dice che «vi sono molti abusi nel modo di vivere di questa gente, adoratori di feticci e idolatri, che non descrivo per non essere prolisso». Nel rio dos Forcados, la gente, chiamata Jos, è assai bellicosa e, anche qui, mangia carne umana.

Si giunge poi al regno del Congo, il cui sovrano, chiamato Manicongo, si fece battezzare dai portoghesi nel 1484 con i principali uomini del suo regno. Ma la sua popolazione gli divenne per questo assai ostile e lo stesso Pacheco Pereira confessa che, dopo vent’anni circa, ormai, «per la poca partecipazione che vi è con questa gente, tutto si va perdendo».

A sud del Congo la costa è conosciuta in modo assai sommario e, in mancanza di stabilimenti portoghesi sulla costa, non si parla quasi più delle popolazioni. L’altro accenno è alla terra del Capo, scoperta da Bartolomeo Dias, dove «i negri, però non così neri come quelli sudanesi (si tratta probabilmente di Boscimani ed Ottentotti), sono gente bestiale»
.
In genere, dunque, il giudizio sulle popolazioni africane incontrate non è quasi mai benevolo ma intriso sempre di elementi negativi o in sé (ladri, bugiardi, cannibali...) o perché di religione islamica, quindi di per sé ostili alla cristianità come seguaci della “setta” di Maometto, o, infine, perché dediti alla idolatria in quanto adoratori di feitiços.

Il roteiro di Pacheco Pereira finisce poco dopo il Capo di Buona Speranza, 3500 leghe marine oltre il fiume Senegal, al Rio do Infante, chiamato poi dagli inglesi Great Fish River, là dove secoli dopo - nel Settecento - si incontrarono e scontrarono popolazioni di pastori Bantu, che scendevano da nord-est, e pastori Boeri che invece risalivano da sud. Quel fiume fu per molto tempo un confine “caldo” tra due popolazioni che praticavano lo stesso sistema di vita, la pastorizia col bisogno di ampi pascoli, e che, proprio per questo ma non solo per questo, erano destinate a scontrarsi, come avvenne poi.
Per risalire la costa orientale dell’Africa e giungere all’India si segue l’altro roteiro, quello di Álvaro Velho, che descrive la rotta seguita da Vasco da Gama dopo il Capo fino a Calicut.
Gli incontri dei portoghesi con le popolazioni locali lungo le coste sono più vari, ma improntati sempre a una grande cautela. Le barche che scendono a terra per fare acqua e legna portano, infatti, sempre uomini armati.
(...)
Tra gli altri pochi contatti amichevoli che avvengono con le popolazioni all’inizio della costa mozambicana, vi è una zona che viene da loro, appunto, chiamata Terra de Boa Gente. Qui essi cominciano a notare che gli abitanti portano tessuti di cotone colorato e che possiedono merci di provenienza asiatica, segno dei contatti già esistenti con l’India. Costoro, però, più che neri, sono «di colore bruno, di buon corpo e fanno parte della setta di Maometto e parlano come i mori». E di loro dice che sono tutti ben vestiti di panni di seta e cotone, trattano con mori bianchi (arabi o indiani), che vengono qui a portare spezie e profumi. «E in più ci dissero i detti mori che sulla nostra rotta avremmo trovato molti bassifondi e anche molte città lungo il mare. E che dovevamo imbatterci in un’isola - si tratta dell’isola di Quiloa come si dice oltre nel testo - in cui vi erano metà mori e metà cristiani, i quali cristiani erano in guerra con i mori, e che in questa isola vi era molta ricchezza. Aggiunsero inoltre che il Prete Gianni stava da quelle parti e che aveva molte città lungo il mare... ma egli si trovava molto all’interno e che non ci si poteva andare se non con cammelli.»

Approdarono in seguito all’isola di São Jorge - vicino a quella di Moçambique -, governata da un “sultano”, dove fu loro chiesto se venivano dalla Turchia. Quando, invece, seppero che erano cristiani, gli isolani si accinsero ad ucciderli e solo la fuga salvò i portoghesi. Nuovo scontro, poi ancora, con altre popolazioni costiere, assai probabilmente Kiswaili musulmani. Nella città di Mombaça, infatti, sono accolti con molto sospetto, perché qui si sa dei loro scontri con gli indigeni a Moçambique. Si dice loro che vi siano cristiani nella città identificati in certi prigionieri. Quando però diviene manifesto che anch’essi sono cristiani, debbono subito fuggire per sottrarsi agli assalti della popolazione.

Le notizie sui bassifondi e l’ignoranza delle condizioni del mare e della costa acuiscono il bisogno di poter disporre di piloti per condurre una rotta di navigazione sicura e certa. Ciò li spinge a prendere terra poco più a nord, dove viene loro detto che nella città di Melinde vi sono quattro navi di cristiani, che in ­re­altà sono di indiani. Le navi danno qui la fonda e sono ben accolti dal re di Melinde, dove vedono per la prima volta una supposta nave di cristiani d’India. Alcuni di loro vengono accolti sulla nave di Paulo da Gama, il fratello di Vasco, e Álvaro Velho dice che costoro sono uomini bassi, vestiti di poco panno, e parlano una lingua vicina all’arabo. Sulla nave viene loro mostrata una pala su cui era dipinta una Madonna, con Gesù Cristo nelle braccia ai piedi della croce e con gli apostoli. Al vederla, tutti s’inginocchiano, pregano e fanno offerte di chiodi di garofano e pepe. Ciò aumentò la certezza nei portoghesi che in India vi fossero cristiani, mentre assai probabilmente si trattava di persone di fede indù che scambiano la Madonna con la dea Visnù. Lo si deduce dal fatto che Álvaro Velho aggiunge che, per costume, è loro proibito mangiare carne di bue e la loro lingua è vicina a quella dei mori.
A Melinde riescono ad ingaggiare un pilota arabo e alla sua guida si dirigono verso nord, in mare aperto, dove il 29 aprile, nel passare l’equatore, ricompare nel cielo la stella polare, che desideravano da molto tempo rivedere. Dopo una lunga navigazione giungono, infine, a Calicut il 20 maggio e il pilota che era con loro disse che quella era la terra alla quale intendevano arrivare.

Qui, un moro di Tunisi, che sapeva parlare genovese e veneziano, sale a bordo e fa da interprete per le autorità di Calicut. Costui subito chiese loro: «Il diavolo vi porti, cosa vi conduce qua? - Veniamo a cercare cristiani e spezie - E perché non vi manda qui il re di Castiglia, il re di Francia o la Signoria di Venezia? - Il re di Portogallo non volle consentire che essi ci inviassero qua - Ben fece, fu la risposta».
«Questa città di Calicut è di cristiani»: questa è la prima sorprendente affermazione dei portoghesi appena sbarcati a Calicut. Circa gli uomini che incontrano, nel roteiro si dice che sono di buona condizione, che si vestono dalla cinta in giù con panni di cotone e che, mentre taluni portano la testa rasata, altri, invece, si attorcigliano i capelli sul capo e, per quanto affabili nei modi - si aggiunge subito dopo - in genere sanno poco e sono tutti molto avidi.
Sbarcati qualche giorno dopo per andare a colloquio con il Samorim di Calicut, essi vengono portati in un edificio che - per la deformazione mentale che li accompagna nella ricerca di cristiani e cristianità - subito scambiano per una chiesa. Qui essi vedono l’immagine di una donna (forse Visnù) in cui identificano la Madonna, anche se poi aggiungono che vi è uno strano modo di rappresentarla con sei braccia. All’ingresso di quella che considerano una sorta di cappella interna, essi vengono aspersi con acqua che, quindi, subito prendono per acqua benedetta. All’interno, poi, vi sono altre immagini, che - per l’ansia di vedere cristianità ovunque - ritengono essere di santi. «Erano dipinti sulle pareti della chiesa molti altri santi, che portavano diademi; ma la loro pittura aveva una maniera diversa, perché i denti erano talmente grandi che uscivano dalla bocca di un pollice e ogni santo aveva quattro o cinque braccia.»
Vengono, infine, introdotti davanti al re, il Samorim, in una sala del tro­no addobbata con molta ricchezza. Questi, dopo talune formalità da cerimoniale - gesti di benvenuto e offerte di frutta -, domanda bruscamente a Vasco da Gama e ai suoi che lo accompagnavano: «Cosa volete?» Vasco da Gama risponde affermando d’essere lì come ambasciatore del re del Porto­gallo per allacciare rapporti d’amicizia e commercio. Alla fine di una lunga e non felicissima conversazione che si protrae fino a tarda notte, il re chiede, subdolamente: «Con chi volete alloggiare: con mori o con cristiani?» «Né con cristiani, né con mori», risponde saggiamente Da Gama. Il Samorim, allora, li congeda ed assegna loro una «pousada» alla quale vengono condotti, secondo Á. Velho, da gente «infida».

Il tenore del colloquio e il contorno umano non proprio amichevole, quindi, generano tra le due parti molte diffidenze reciproche. Due giorni dopo, infatti, il Samorim rifiuta i regali di Da Gama, che valuta inferiori a qualsiasi omaggio fatto dal più povero mercante e gli domanda ancora: «Cosa era venuto a scoprire, pietre o uomini? E se era venuto a scoprire uomini, perché non portava niente con sé?». Questo ed altro fa sì che progressivamente si guastino del tutto i rapporti tra la gente locale e i portoghesi, che cominciano ad essere considerati ladri venuti in quella terra solo per rubare.

Oltre alle diffidenze del Samorim e all’ostilità della popolazione sui nuovi arrivati dall’Europa, gran parte delle voci infamanti sui portoghesi sono fatte circolare subito dai mercanti originari della Mecca, quivi assai influenti, che vedono in loro non solo dei concorrenti temibili ma anche dei «cristiani». Da parte loro, inoltre, i portoghesi non riescono ad offrire un’altra e migliore immagine di se stessi.
Dopo oltre due mesi di dispetti reciproci ed anche di qualche animosità aperta, i portoghesi alla fine riescono ad acquistare in loco una grossa partita di spezie con la quale ripartono da Calicut. Per tutto il viaggio di ritorno sono, tuttavia, accompagnati dalla fama di essere ladri. All’isola di Angediva, vicino Calicut, evitano con qualche affanno di essere assaliti da una piccola flotta di navi che li inseguiva. A Mogadiscio sono anche costretti a sparare colpi di cannone per intimorire la popolazione e per farsi rispettare. Solo a Melinde sono accolti di nuovo bene. Il viaggio da allora non ha più storia, se non per la moria di molti marinai per via dello scorbuto e, an­cora, per la morte di Paulo da Gama a Capo Verde.
Vasco da Gama giunge trionfalmente nel porto di Lisbona il 29 agosto e da quel giorno, come scrive Girolamo Sernigi - mercante fiorentino “osservatore” a Lisbona di quel che facevano i portoghesi - in una lettera indirizzata a Firenze il giorno stesso dell’arrivo di Vasco da Gama: «A mio iudicio stimo già che tutta la richezza del mondo sia scovata e che di già altro non si possa discoprire».

Vicino/Lontano, Est/Ovest, Nord/Sud, Analogo/Diverso
Alla fine della sintesi di questi due roteiros, occorre capire cosa si possa ricavare da quest’insieme di notizie, spesso anche frammentarie.
Anzitutto, va fatta un’osservazione generale. Dai due roteiros, ciò che emerge è una nuova dimensione del vicino/lontano. La terra dei neri - l’Africa subsahariana - è assai più prossima al Portogallo di quanto non lo sia l’India, ma nelle descrizioni la prima è assai più penalizzata qualitativamente rispetto alla seconda. Le scoperte geografiche, insomma, alterano la vecchia dizione di Erodoto: vicinanza e lontananza si misurano non in semplici distanze ma si arricchiscono di altre valenze. Nell’ambito porto­ghese, semmai, quella che risalta è una dimensione nuova, forse solo a noi oggi completamente chiara: quella di Nord/Sud. Procedendo verso sud, infatti, la qualità umana diminuisce sempre più, mentre, nel riandare verso nord, essa pare aumentare. Nord e Sud sono intesi naturalmente rispetto al protagonista, il Portogallo.
Quanto più si procede verso Sud, infatti, il mondo appare alla vista dei portoghesi sempre più pagano, idolatra, feticista, fatto di gente cattiva, ladra, ubriacona, bugiarda, che, forse, mangia anche carne umana. Nell’an­dare verso Nord il mondo diventa più “civile” perché è fatto di città, in cui vi sono religioni, sistemi politico-sociali evoluti, commerci, uso del danaro, tecniche e così via.
Accanto a Nord/Sud si scopre un’altra dicotomia geografica, almeno per il continente africano, quella di Est/Ovest. La parte orientale è assai più sviluppata ed evoluta - come si direbbe oggi - di quella occidentale. Lungo la costa occidentale, tra il sud del Marocco ed il Capo, non vi sono più città ma solo gente raggruppata in villaggi, anche se assai estesi e popolati come nel Benin o nel Congo. Sulla costa orientale, invece, dal basso Mozambico in su, rispuntano le città ed i commerci, in una parola si vede il volto di una “civiltà”, che diviene sempre più “forte” quanto più si procede verso l’India, cioè verso l’Oriente.
Si assiste, dunque, ad una nuova divisione Est/Ovest, che, oltre ad avere una valenza globale, ne ha una nuova in ambito più strettamente africano. La bipolarità geografica tra Est e Ovest è, del resto, anche l’eco dell’antica dicotomia Oriente/Occidente che risale al mondo classico e che era rimasta tale anche nel mondo medievale. Dal tempo delle guerre persiane e soprattutto dall’impresa di Alessandro Magno, l’Oriente è sempre stato considerato il luogo di vaste ricchezze, di avanzate civiltà e di estesi imperi. 
Alla sua estremità, la Cina. Il Milione di Marco Polo ne aveva riproposto la qualità superiore, sia dal punto di vista politico che economico. Le stesse crociate, poi, avevano riconfermato il valore dell’Oriente. Del resto, il si­stema di orientamento non fa perno sulle carte proprio su Gerusalemme, almeno fino a Seicento inoltrato?

Arrivare a quest’Oriente è, ancora, proprio la meta delle scoperte geografiche, sia di Cristoforo Colombo sia di Vasco da Gama, ma, va detto, è quest’ultimo a giungervi e a ripresentarlo concretamente all’Europa, e questa volta - a differenza dei Polo - egli inaugura un contatto diretto e segna una rotta di comunicazione possibile e d’una modalità ripetibile.

Da allora e sino alla fine del Settecento, l’Oriente rappresenta uno dei principali luoghi di convergenza delle attività europee e, dal punto di vi­sta commerciale, gran parte degli stati d’Europa rimane per lungo tempo tributaria economica di quest’area. In virtù di ciò, le principali nazioni europee - soprattutto Inghilterra e Francia - si posero in reciproca ed aspra concorrenza in Oriente per ottenere la supremazia commerciale nonché politica, perché qui, in gran parte, si giocavano i loro destini di potenze a livello mondiale.
L’Oriente, inoltre - soprattutto il Celeste Impero della Cina -, in più d’un caso, assume anche la configurazione di una sorta di modello politico, economico e sociale, spesso additato ad esempio per gli stati europei in crisi come via per arrivare alla perfezione.

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