11. Costantino e l'aristocrazia romana

Costantino il Grande 

da Arnaldo Marcone, Costantino il Grande, Roma-Bari 2000


Costantino fece il suo ingresso vittorioso a Roma il 29 ottobre del 312. Anche per differenziarsi dal suo antagonista manifestò il proprio distacco dai culti tradizionali della religione romana cui Massenzio si rifaceva. Intendendo enfatizzare questo spirito di rottura con il passato, Costantino rinunciò a compiere il sacrificio tradizionale di ringraziamento a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Inoltre gli doveva sembrare poco opportuno celebrare il trionfo per la vittoria conseguita al termine di una guerra civile.

La politica di Costantino negli anni immediatamente successivi alla sua vittoria su Massenzio è contraddistinta, soprattutto a Roma, da prudenza e spirito di conciliazione. Nessun documento è in questo senso più significativo del testo inciso sull’arco di trionfo fatto erigere tra il Foro e il Circo Massimo nel 315. Dal punto di vista religioso l’iscrizione è un capolavoro di ambiguità.
Essa recita:

All’imperatore Cesare Flavio Costantino, Massimo, Pio, Felice Augusto, il senato e il popolo romano dedicarono l’arco insigne per il trionfo, perché per ispirazione divina e in virtù della grandezza del suo sentire insieme con il suo esercito estirpò con una giusta guerra dallo Stato l’usurpatore e i suoi seguaci.

L’accento batte sulla gratitudine del senato e dei cittadini per il nuovo imperatore. In termini politici questo non vuol dire altro se non il riconoscimento del nuovo stato di fatto e la sua piena legittimazione. La questione religiosa, se c’è, è marginale. Il riferimento all’intervento divino è generico e vago: instinctu divinitatis. Certo nessuno poteva sentirsi turbato dall’idea che Costantino potesse essere stato ispirato dal cielo. Ognuno poi era libero di immaginare di quale dio potesse trattarsi. Anzi, probabilmente il riferimento più immediato cui veniva di pensare era, tutto sommato, la divinità solare. Ancora nel 313 sul diritto di un medaglione d’oro coniato a Pavia si può vedere l’immagine di Costantino affiancata da quella, con tratti molto simili, di Sol.

Tanta discrezione si concilia bene con la linea seguita da Costantino nei confronti dell’aristocrazia senatoria romana. L’esistenza di un’opposizione senatoria pagana a Costantino è generalmente considerata fuori discussione. Si invoca come elemento di prova, ad esempio, la sua riluttanza a coniare monete con simbologia cristiana in Roma, cosa che invece altrove faceva senza problemi. Si è parlato addirittura di una presunta animosità tra senato e imperatore per le assegnazioni delle varie cariche.
In proposito è necessario sottrarsi alla propaganda costantiniana che presenta la campagna del 312 in Italia come una sorta di “guerra di liberazione” e gli atti successivi alla vittoria finale come una “restituzione” della giustizia. Il messaggio delle epigrafi in proposito è chiaro: liberator e restitutor sono gli appellativi che accompagnano regolarmente Costantino. D’altra parte la posizione di Massenzio era svantaggiosa dal momento che la sua assunzione al potere, nelle convulse vicende della seconda tetrarchia, non era mai stata riconosciuta come legittima. A tutto questo si aggiunga la condotta anticristiana falsamente addebitatagli in seguito.
Le nostre fonti attribuiscono inoltre a Massenzio una linea di condotta ostile nei confronti dell’aristocrazia senatoria. Per essa mancano però riscontri obiettivi, non risultando attestato neppure un nome di una delle sue vittime.
Le nomine ai posti-chiave di governo riservati di regola ai senatori, prima fra tutti, ovviamente, la prefettura urbana, cioè il ruolo di capo della città di Roma, rappresentano un test significativo. Ebbene, proprio le nomine alla prefettura urbana dimostrano come coerente fosse la volontà degli imperatori – di Diocleziano, così come di Massenzio e di Costantino – di affidare tale carica agli esponenti delle famiglie della più alta aristocrazia senatoria.

Nello scorrere i fasti delle magistrature senatorie, il consolato, i proconsolati d’Asia e d’Africa e, come si è visto, la prefettura urbana, risulta che in larga misura i titolari delle cariche principali erano rimasti gli stessi. Colpisce, inoltre, l’assenza, dopo il 312, di un nucleo di esponenti inequivocabilmente cristiani tra i detentori di cariche scelti tra i senatori romani. Dunque Costantino non sceglie per le più alte cariche dell’amministrazione imperiale dei magistrati sulla base della loro fede religiosa. Né si può dare per scontato, per i pochi, ipotetici cristiani pervenuti a posizioni di vertice, che la loro fede religiosa abbia giocato un ruolo decisivo.
D’altra parte proprio l’attaccamento ai culti tradizionali come espressione della stessa continuità dello Stato faceva di chi li professava uno strumento prezioso di governo. La collaborazione e non già lo scontro tra Costantino e l’aristocrazia romana era nella logica delle cose, soprattutto nella delicata fase di inizio del regno. In una situazione ancora fluida, si capisce bene come egli puntasse a preservare una buona intesa con il senato romano, così da avere piena libertà di azione su altri fronti. A ogni modo Costantino si trattenne a Roma solo per due mesi o poco più. Già nel gennaio del 313, infatti, lasciò la città.

Egli certamente sapeva come guadagnarsi le simpatie. Le fonti concordano nel mettere in risalto il suo essere affabile e disponibile, in una parola, la sua civilitas, un ideale molto presente negli ambienti senatori del IV secolo e altamente significativo nel lessico politico del periodo, in un momento in cui tornava a essere valorizzata la collaborazione tra imperatore e senato. Soprattutto Costantino si affrettò a confermare nelle loro cariche quanti le avevano detenute durante il precedente regime.
Costantino poi continuava a ricoprire la dignità di pontefice massimo, che rappresentava un indubbio elemento di continuità con la tradizione e contribuiva a preservare il rapporto con l’aristocrazia pagana. Noi non sappiamo quante delle funzioni connesse con questo ufficio egli esercitasse pienamente e quale reazione suscitasse la loro eventuale omissione. I riti pagani comunque, in un primo tempo, non subirono restrizioni particolari, né ci furono contraccolpi religiosi nell’esercito. La monetazione, che mantiene ancora a lungo l’antica simbologia religiosa, documenta bene questa fase di transizione, con la prevalenza nelle raffigurazioni di Sol invictus. Quest’immagine, gradita al neoplatonismo diffuso tra gli aristocratici, spianava la strada anche verso il cristianesimo, che conosceva la metafora di Cristo come “sole di salvezza” o “sole di giustizia”, sol salutis o sol iustitiae.

Dunque le necessità della collaborazione e dell’intesa all’indomani della battaglia di ponte Milvio indussero imperatore e senato sulla via della reciproca comprensione anche in campo religioso. Come la formula dell’iscrizione incisa sull’arco di trionfo (instinctu divinitatis) soddisfaceva tanto i pagani quanto i cristiani, così un anonimo panegirista nel 313, per celebrare quel successo avvenuto in circostanze, in linea di principio, poco favorevoli, chiama in causa non meglio precisati “ammonimenti divini” (divina praecepta), che si sarebbero rivelati al predestinato alla vittoria, mentre il suo antagonista ricorreva “ai fallaci pareri degli aruspici”.

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