9. Giovanni Rajberti, IL VIAGGIO DI UN IGNORANTE OSSIA RICETTA PER GLI IPOCONDRIACI, Guida, Napoli, 1985

Giovanni Rajberti, IL VIAGGIO DI UN IGNORANTE OSSIA RICETTA PER GLI IPOCONDRIACI, Guida, Napoli, 1985

Oibò, cari amici, oibò! cioè, non oibò all’ignoranza, che è cosa ottima, ma oibò alla stoltezza di lasciarvene intimidire fino a crederla impedimento a chechessia. 


Quando si gironzola per Parigi sui Boulevards, nella via Rivoli, sulla Piazza della Concordia, per Campi Elisi, sotto ai portici del Palais Royal, ecc. estatici e sbalorditi alla vista di sì magnifici magazzini, di sì grandiosi monumenti, di tanta folla di gente e di bestie, non si può fare a meno di pensare: «Come mai tanti imbecilli dalle mie parti, pieni di denari, di salute e di ozio, non si risolvono una maledetta volta a fare questo rapido e comodo viaggetto per vedere tali meraviglie? Sempre quella vita stolida e monotona, sempre! Tante ore al solito caffè, tante ore al solito teatro, tante ore dalla solita donnetta: ma verrà quel giorno, che il solito medico di casa vi spingerà nel viaggio dell’altro mondo, e ciò sarà qualche cosa di radicalmente nuovo in tanta uniformità di esistenza!»


Ma il peggio a considerarsi è il deplorabile motivo che trattiene molti dal visitar Parigi: l’ignoranza della lingua francese: e lo so di certo, perché alcuni ebbero cuore di confessarmelo. Oibò, cari amici, oibò! cioè, non oibò all’ignoranza, che è cosa ottima, ma oibò alla stoltezza di lasciarvene intimidire fino a crederla impedimento a chechessia. Chi ha potuto darvi ad intendere che a Parigi occorra sapere il francese? certo un qualche burlone che volle farsi beffe di voi. O la sarebbe mai una immaginazione tutta di vostra testa? Fate a modo mio, operate a caso, e non pretendete mai di ragionare, se no vi si riempirà la fantasia di pregiudizii e di spropositi. Io vi compatisco, perché non avete mai viaggiato, e so che non potete capir nulla. Ora è il tempo di illuminarvi su questo argomento: fiat lux!
Dunque vi annunzio: 1) che a Parigi la lingua francese è affatto inutile; 2) che anzi è dannoso di saperla; 3) che per vostra disgrazia la sapete tutti anche troppo, ed è puro effetto di matta modestia se non ne siete persuasi.



1) È inutile. Qui vi attenderete a sentire che in Parigi vi sono tante migliaja d’Italiani d’ogni condizione e d’ogni mestiere: e che in certi caffè, in certe osterie, in varie parti della città non si sente a parlare che toscano, napoletano, lombardo, piemontese, ecc. Tutto ciò è verissimo, ma sono ragioni troppo ovvie e plateali perché io me ne degni. No: vi metto proprio nelle contrade più parigine di Parigi, e vi dimando: — Che volete farne qui della lingua francese? Guardate là nelle migliori botteghe, nei più eleganti negozii quanti cartelloni che coprono le mercanzie, e portano scritto:
Se habla español.
Man spricht deutsch.
Si parla italiano.
English spoken... ecc. ecc.
Dunque voi altri, non solo d’Italia, ma che avete nomi terminanti in eira, in ein, in off, in inski, cinesi, ottentotti, samojedi, a che imbarazzarvi della lingua frivola e beffarda di Rabelais e di Voltaire? andate avanti, parlate tutti come a casa vostra, e vi ascolteranno, vi risponderanno, vi serviranno, che sarà una meraviglia.
Ma qualche incredulo domanderà: «Come? il popolo parigino sa tutte le lingue?» Oibò: non ne sa nemmeno una fuor della propria: anzi non solo il popolo, ma, in genere, perfino i dotti sono i dotti più esclusivi del mondo in fatto di lingue. La razza slava, la tedesca, l’anglo-sassone vantano poliglotti famosi: noi ebbimo il più famoso di tutti nel Mezzofanti. 


Vi sarà qualche raro esempio anche in Francia, ma pochissimi fiori di serra non fanno primavera: e vi replico che la massima parte di quei dotti non sa che la propria lingua, e hanno ragione: perché quella è la lingua delle scienze, delle arti, delle Corti, della diplomazia, della galanteria: è la sola moneta conosciuta e scambiata in ogni paese: quindi si tengono in diritto di rifiutare ogni altra lingua e di volere che ogni nazione s’ingegni a seguirli nella lingua loro. Di ciò ebbi numerose prove quando serviva nell’Ospedale Maggiore di Milano e mi toccava fare quelle pesantissime guardie di 24 ore ogni tre giorni. Allorché capitava a visitare lo stabilimento qualche famigerato medico o celebra ciarlatano di Parigi (che brutto vizio il mio di esporre tante volte il medesimo concetto in due maniere!), non c’era mai verso di spremergli una parola in italiano o in latino: e per intenderci alla meglio o alla peggio, bisognava proprio che ci adattassimo a spropositare in francese.
Qui parmi sentirvi esclamare: «Oh che razza di bisticci e contraddizioni ci vai sciorinando, bestia di dottore! alle corte: chi è più bugiardo, tu, i Parigini, o i loro cartelloni?» In ciò nessuno è bugiardo, miei cari: non io che vi narro la verità; non i cartelloni, perché in quei negozi chiunque entri è padrone di parlare la lingua che vuole o che può; e nemmeno i Parigini, quantunque nella loro qualità di gente piena di spirito e d’ingegno si possano sospettare un tantino bugiardi in ogni altra cosa. La spiegazione dell’enigma sta in questo, che, al contrario degli sciocchi eruditi soliti a saper tutto e a non capir nulla (notate ben), il Parigino è un sublime ignorante che non sa nulla ma capisce tutto. Che bisogno ha di intendere la vostra lingua che è una piccola parte di voi, quando intende e capisce tutto voi? Con una rapida occhiata, il Parigino, e meglio ancora la Parigina, argomentano non solo la vostra età e il vostro sesso, come i volgari osservatori, ma la condizione, le finanze, le abitudini, i bisogni, i vizi, le virtù: se lo voleste, vi direbbero all’orecchio quali sono i vostri peccati. Dunque spiegatevi pure nella lingua vostra, e vi risponderanno nella loro. Se, poco o tanto, riuscite a capirvi, tutto va bene: se non riuscite nemmeno coi gesti, allora va tutto meglio. In cambio di servirvi a modo vostro, vi serviranno a modo loro, e sarete fortunati, perché se ne intendono e sanno ciò che più vi convenga, e ciò che vi andrà più a proposito, e fino a qual prezzo possa arrivare la vostra borsa. E ne rimarrete così persuasi, che anche serviti a rovescio delle vostre intenzioni, partirete contenti: e all’occorrenza, ritornerete là, anzi farete nascere l’occasione di ritornarvi: tanto v’avranno interessato quei modi gentili, quegli atti di rispettosa confidenza, quelle congratulazioni di vedervi in Parigi, quell’esservi trovati cari amici di primo colpo. Da tutto ciò concludo: — Se mai foste di coloro che gettano a studiar le lingue il tempo così prezioso e necessario per l’ozio, economizzate almeno quello che destinereste al francese.

La caccia prediletta del Parigino, la selvaggina che più gli va a sangue, sono i forestieri, che durante l’anno accorrono a centinaia di mila a quel gran paretajo.

Ma se il male è già fatto (seconda tesi), se per disgrazia sapeste parlar francese come i Parigini, dissimulate gelosamente questa attitudine, e guardatevi dall’imitare la cornacchia dell’apologo, che pretese dar saggio di bella voce alla volpe. Se parlate come loro, vi pigliano per uno di loro, cioè per un rusé, per un blasé, sul quale non ci sia a far presa: addio espansioni d’animo, addio gentilezze; vi trattano con riserbo e diffidenza: lo sapete pure il proverbio: cane non mangia cane. La caccia prediletta del Parigino, la selvaggina che più gli va a sangue, sono i forestieri, che durante l’anno accorrono a centinaia di mila a quel gran paretajo. Pel forestiero sono le più cordiali strette di mano, le più amabili espressioni, i più graziosi sorrisi. Parigi non è egoista: una buona metà di quel popolo vive solo per chi va a visitarlo: e le più strepitose scoperte che si fanno in quella metropoli non sono già per consumo degli indigeni svogliati e disillusi di tutto; ma pei forestieri delle quattro parti del mondo che vanno là con viva fede e denari molti. Con questi elementi si partecipa ai benefizi di tutti i prodigii. Siete tormentato dalla podagra? gli empirici vi promettono che tra pochi giorni ballerete la polka al Mabille. Se avete il gobbo o le gambe storte, i sarti vi vestiranno in maniera che nessuno più non se ne accorgerà. A Parigi non si rimettono solo i denti: ma i dorsi, le polpe alle gambe, e quelle delle coscie, e le..., e le..., si rimette tutto. Sareste mai curiosi di sapere che malattia abbia laggiù a Palermo quel vecchio indiscreto di vostro zio, che non si risolve mai a crepare e lasciarvi godere l’eredità? Le sonnambule ve ne informeranno minutamente. Ma forse siete persone d’ingegno che preferite mettervi in comunicazione cogli illustri trapassati. Ebbene, le tavole danzanti e parlanti e scriventi vi faranno apparire in ispirito chiunque vi piaccia: raccoglierete una sentenza ipocondriaca di Rousseau, un epigramma di Voltaire, un distico di Boileau... a 5 franchi per testa.


Bisogna proprio che insista alquanto sulle cordialità prodigate ai forestieri, e sceglierò un pajo d’esempii fra i tanti accaduti a me. Una mattina, leggendo in piazza della Borsa gli avvisi a caratteri cubitali su per le case, vedo che a un terzo piano da N.N. si radeva la barba per 25 centesimi, e per altrettanto si tagliavano i capelli; era il mio caso: salii. Ho trovato che per sovrappiù v’erano molti giornali per occupare il tempo d’aspettazione. Or bene: ai molti avventori, perché al parlare si annunziavano Parigini, non venne offerto null’altro che l’opera richiesta; a me solo, che mi guardavo bene dal parlar bene, si facevano le più interessanti esibizioni. Mi proposero di legarmi senza dolore tutti i capelli bianchi, che ormai sono più numerosi dei neri: non volli. Volevano munirmi di un certo unguento che li fa diventar tutti neri, e li vivifica, li fortifica, li mollifica: rifiutai. Mi lodavano a cielo un loro olio famoso che impedisce le macchie della pelle e previene le grinze: feci orecchie da mercante. Mi pregarono di prendere almeno una pomata infallibile per far nascere i favoriti, di cui natura non volle favorirmi: niente! Insomma, da quel salon avrei potuto escire tutto leggiadro, rifatto, ringiovanito, da non essere più riconoscibile: ma, lo credereste? per l’indegno risparmio di quattro o cinque miserabili franchi discesi le scale che pareva ancora quello di prima.
È tanto l’amore dei Parigini pel forestiero, che se lo contendono e se lo rubano con ogni sottigliezza d’artifizi. Io e il mio compagno, proprio al primo metter piede in Parigi, ebbimo a subire un ratto: e che ratto! non già eroico, con violenze, con resistenze, con conseguenze, come i famosi ratti di Proserpina e delle Sabine: ma comico, piacevole, spontaneo, non contemplato dal codice, come sta bene nei tempi civilizzati.
Un mio conoscente, reduce da Parigi alcune settimane avanti che ci andassi io, m’aveva fornito varie indicazioni, e lodato come buono un hôtel garni, del quale notai il nome e la contrada. Esciti dalla stazione della strada ferrata, vediamo una quantità di omnibus e di broughams che attendevano i viaggiatori: pigliamo a caso uno di questi ultimi, facciam caricare le nostre valigie: e poi io, coll’aria di persona pratica (non aveva ancora imparato le furberie) e con lingua e accento di tale purezza da disgradarne Lamartine, grido al cocchiere: — Rue N.N., hôtel N.N. — Oui, monsieur — e via!
Bisogna però credere che quel birbo ci abbia riconosciuti per forestieri e qualche altro indizio, non saprei quale; ma, ve l’ho già detto che quella gente là capisce o indovina tutto: e io sono sinceramente persuaso che vale più un asino a Parigi che un membro di quindici accademie in Italia.
Giunti all’albergo indicato, si scende, si portano dentro le valigie, si paga il vetturale che va pe’ fatti suoi. Ci viene incontro il padrone col berretto in mano, tutto inchini e cerimonie e profferte di servitù. Io che sono cauto e furbo, domando, per prima cosa se quello sia l’hôtel N.N. — Per l’appunto, e a’ lor comando. — Lo interrogo se nel mese antecedente abbia dato alloggio al tale dei tali, amico mio. — Quel caro signor tale! e sono suoi amici! o che brava persona! quanto amabile e discreta! — E si mostrò dolentissimo di averlo perduto. Voleva andare a prendere il libro delle iscrizioni per mostrarmene il nome: ne lo impedimmo quasi a forza. Ci invitò a salire per la scelta delle stanze, non mancò di farmi vedere quella stata abitata dall’amico: la trovai di mia convenienza, e il compagno ne fissò un’altra sull’istesso piano. In fretta in fretta mettiamo a posto le nostre robe: un poco di spazzola agli abiti, qualche cambio al costume di viaggio, e subito si discende per correre a veder Parigi.

Allora il padrone, in atto ossequioso, interessò la nostra bontà a degnarsi di favorirgli i passaporti per l’iscrizione dei nostri riveriti nomi. Ci degnammo: li prese con la punta delle dita, e tenendoli uno con una mano, l’altro coll’altra, portava gli occhi alternativamente sopra ambedue i fogli. Quando vide che eravamo Milanesi, esclamò con gioia e tenerezza (e, bene inteso, con un chino): — Tous deux Milanais! —

Allora il padrone, in atto ossequioso, interessò la nostra bontà a degnarsi di favorirgli i passaporti per l’iscrizione dei nostri riveriti nomi. Ci degnammo: li prese con la punta delle dita, e tenendoli uno con una mano, l’altro coll’altra, portava gli occhi alternativamente sopra ambedue i fogli. Quando vide che eravamo Milanesi, esclamò con gioia e tenerezza (e, bene inteso, con un chino): — Tous deux Milanais! — Lo credereste? trovarsi lontani duecento leghe dalla patria, e accorgersi inaspettatamente che la medesima gode tanta simpatia presso i Parigini, fu cosa che mi commosse quasi fino a inumidirmi le ciglia: tanto più che l’atto era spontaneo, e quell’uomo aveva ragione. Difatti, Milano (salvo l’amor suo figliale per la Germania) non è forse una piccola Parigi?


Ma quando scoprì che eravamo due medici, toccò all’apogeo degli atti ossequiosi e ammirativi: curvossi tutto quanto, portò le mani al cuore quasi per comprimerne i violenti palpiti, e osando appena levare gli occhi su di noi, disse a voce lenta, grave, appena intelligibile, come parlasse a sé medesimo della propria felicità: — Docteurs tous deux! — Questa volta non ci solleticava nei teneri affetti, ma nell’orgoglio: e vi confesso di non aver mai provato tanta compiacenza del mio grado accademico. Anzi, mi nacque subito una velleità d’ambizione, e pensai: «Quanto non pagherei a essere in questo momento un marchese o un duca, per vedere se costui volesse baciarmi la mano come al vescovo, o i piedi come al papa!» Insomma ci separammo reciprocamente contentissimi, e amici per la vita.
Appena esciti in istrada, il primo moto istintivo fu di osservare la fisionomia della casa che per qualche tempo doveva essere la nostra. E leggemmo scritto sopra alla porta — Hôtel, ecc. ecc. — un nome tutto diverso da quello indicato da noi. Fummo lì lì per gridare al tradimento, e precipitarci dentro a fare uno scandalo. Ma io, che sono prudentissimo, dissi — Aspetta: andiamo a vedere se almeno la contrada sia la nostra; e fatti un quaranta passi, leggiamo sull’angolo — Rue Notre dame des victoires — nemmeno una parola di quelle che avevamo in mente.
— Capisci qualche cosa tu di questo pasticcio? — dice l’altro.
— Oh, se mi par di capire! il vetturale che ci ha condotti riceverà tanto di mancia per ogni bestia che scarica in questo hôtel, e oggi avrà fatto un buon affare scaricandone due in un colpo.
— Ma ora, che si risolve?
— Niente: andare a spasso e lasciar le cose come stanno. La situazione mi par bella, le stanze sono buone, saremmo ben matti a ritornare indietro per arrabbiarci, per rifare le valigie, per farci condurre dinanzi a qualche altro ammiratore dei medici dal primo brougham che passa. Anzi, sarei di parere che coll’albergatore non ci dessimo nemmeno per accorti delle sue bugie, per non mortificarlo. Ha tanto la cera di buon diavolo, così educato e rispettoso! sarebbe proprio un guastargli la felicità di possedere due dottori milanesi: Docteurs tous deux! oh che animale! —
— Hai ragione, — conchiuse il compagno — quell’uomo mi piace: d’altronde voleva così bene al nostro amico, ne vorrà altrettanto anche a noi. Piuttosto, notiamo subito i nomi della rue e dell’hôtel per non perderci, noi e la roba nostra.
E così abbiamo fatto, per nostra fortuna. Figuratevi che in quell’immenso labirinto di Parigi eravamo a pochi passi dalla magnifica piazza della Borsa, la quale taglia in mezzo la rue Vivienne, una delle più belle per ricchezza di botteghe e di magazzini, vera esposizione perpetua d’ogni ramo di arti e d’industria, e vi mette da un lato alla parte migliore dei Boulevards dall’altro al Palais Royal, alla Rue Rivoli, al Louvre, ecc. In somma eravamo in sito centrale, in prossimità alle maraviglie più rimarchevoli; e d’onde il più balordo novizio piglia in un momento conoscenza e pratica delle principali arterie della città.
Vedete dunque quanto convenga al forestiero in Parigi di affidarsi al caso, e lasciarsi dirigere dai Parigini, e mettersi, per così dire, in tutela volontaria del primo che capita tra i piedi. Ma come mai può il forestiero farsi conoscere per tale, e meritarsi la protezione di quella buona gente? Il passaporto non lo si reca intorno spiegato sulla schiena, anzi non lo si fa vedere che all’albergatore, o all’ufficio della Posta per ritirare le lettere. Il metodo infallibile è questo: parlare il francese a un presso come i nostri fratelli Croati parlano l’italiano dopo un mese di dimora in Lombardia.


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