8. Laura Faranda Simbologia dell’acqua nella Grecia antica in Viaggi di ritorno. Itinerari antropologici nella Grecia antica, Armando, Roma, 2009

Laura Faranda
Simbologia dell’acqua nella Grecia antica in Viaggi di ritorno. 

Itinerari antropologici nella Grecia antica, Armando, Roma, 2009


Difficile e affascinante questo testo che introduce argomentazioni antropologiche nella lettura di temi classici. E, certo, si può comprendere la ritrosia di archeologi e filologi davanti a tante certezze: quali testi, quali parole inducono Faranda ad analisi così accurate? Non è presto per analisi di questa ampiezza, là dove i testi stessi dell’antichità greca sono tutt’altro che univoci e richiedono molta cautela e una certa conoscenza dei mille contrastanti testi?
Tuttavia le pagine di Faranda, pur con tutti i dubbi, sono interessanti e meritano di essere riproposte a un pubblico come il nostro, grande amante della classicità.
Tutto scorre. Simbologie dell’acqua nella Grecia antica

«O mari ti voglio contare la mè contintizza d’aviri passato la nuttata tra le vrazza di un omo che è un vero omo. Ti voglio diri che ora finalmente saccio che cosa è l’amori, dari e pigliari, avarizia e sperpero, ducizza e amarizza... E fari all’amori è come la tò onda quanno arrisacca a lento a lento avanti e narrè, avanti e narrè, in un moto che purtroppo nun è eterno come il tuo, dura troppo picca, però a nui abbasta chisto picca per farci filici...».


Così Maruzza Musumeci, creatura sensuale e irresistibile - la donna-sirena protagonista del genio creativo di Andrea Camilleri - fa rivivere in un lembo immaginario di una Sicilia contemporanea, nel tempo e nello spazio incantato della contrada Ninfa, un canto di gioia, di desiderio, di amore e dolore, affidando alle acque di un mare memore e complice i segreti della sua metamorfosi e della sua rigenerazione. 
Vittima e vestale, signora e prigioniera delle acque, anche Maruzza (come già Maria di Tindari) ci immette in una storia passibile di viaggi a ritroso, in un gioco sempre possibile di simbiosi tra letteratura e mito, tra la ricchezza di un repertorio di tradizione orale e i naufragi affabulatori “a occhi chiusi”. E ci accorda con le acque di una Sicilia greca affollata di divinità apparentemente più modeste di quelle olimpiche: la ninfa Aretusa, ad esempio, che sfuggendo al dio-fiume Alfeo attraversa il mare e dalla Grecia si stanzia a Siracusa, dove Artemide la trasforma in sorgente mentre Alfeo, raggiuntala, confonderà le sue acque con quelle dell’amata; oppure Ciane, la ninfa che cerca di trattenere il cocchio su cui Plutone trasporta Persefone e viene punita dal dio, che percuotendola la trasforma in una sorgente dalle acque scure. 
Calchi mitici esemplari, quelli delle ninfe fluviali o marine, come quelli delle Sirene siciliane, i cui culti preesistevano probabilmente già all’arrivo dei Greci, ma che furono da questi riadattati e integrati nel sistema cultuale del pantheon greco, insistendo su una filiazione essenziale della Sicilia nella grecità e su un collegamento Peloponneso-Sicilia che marcava al tempo stesso egemonie mitiche e politiche. 
Sirene mediterranee presenti nella mitologia delle coste tirreniche già a partire dalla tradizione pitagorica; Sirene non necessariamente assoggettate all’immagine mortifera del canto omerico; Sirene avimorfe, prima ancora di incarnare l’immagine della donna-pesce, e quindi in grado di volare e sorvegliare le rotte dei naviganti, di presiedere al controllo delle correnti e garantire la buona riuscita della pesca; ma anche capaci di interiorizzare la voce dell’onda e restituirne il canto, consegnando all’in canto acustico l’ibridismo figurale.

Sirene tanto vicine quanto accomunabili a quei corpi di streghe, gioiosamente liberi e nudi, voluttuosi e “integralmente saturi di sessualità” che prendono forma a tutt’oggi nei racconti di tradizione orale delle isole Eolie e che alludono alla trasposizione mitica di una referenza storica e territoriale in cui - in una realtà nella quale la divisione sessuale del lavoro era più sfumata - la donna eoliana, abile pescatrice, poteva essere di fatto anche sovrana delle rotte marine.
Creature abbaglianti, figure ambigue, difficili da classificare, le streghe eoliane sembrano così oscillare nella memoria narrante contemporanea tra le Sirene accoglienti e generose che vigilano sulle coste mediterranee e le fate bianco o nero-vestite, che entrano nelle case con la benedizione di Dio e il cui sabba non viene mai demonizzato in Sicilia. «Paradigmi figurali femminili in cui sono facilmente ravvisabili divinità pagane connesse alla fertilità, alla fecondità, al parto» esse alludono, ancora una volta in un presente storicizzabile, alla nostalgia religiosa di figure immaginali arcaiche, ninfe o figlie della terra, delle acque e del vento, di un soffio che rende gravide nel segno di un principio fecondativo diffuso e costante nelle tipologie narrative del Mediterraneo. Non a caso, le stesse ninfe Ciane e Aretusa si connettono con il culto demetriaco in Sicilia: e se l’autoctona Ciane prova a difendere una dea vergine ma non riesce ad opporsi al ratto di Kore, né a instaurare un dialogo compensativo con la divinità greca a lei analoga, Aretusa, di contro, avvalendosi di un’origine peloponnesiaca che la ingloba in un pantheon olimpico, può rivelare a Demetra il segreto di Kore e del suo ratto.
Una simile complicità con la madre-terra e con l’acqua, con l’aldilà e con le polle sorgive esige, nel nostro viaggio di ritorno, la rilettura di una “carta mitica” da restituire anzitutto alla tradizione greca arcaica e alla lezione esiodea: non prima di aver ricordato che tra le sponde del Mediterraneo è a tutt’oggi ricorrente l’identificazione della tromba marina con “una donna dai capelli sciolti, nuda” o con «una turba di femmine cattive e brutte dai labbri tumidi e lunghi quanto i capelli di una donna».



Le acque nei miti di fondazione cosmogonica
Gaia generò per primo, simile a sé, / Urano stellato, che ravvolgesse tutta d’intorno, / che fosse ai beati sede sicura per sempre. / Generò poi i monti grandi, grato soggiorno alle dee Ninfe [...] / e generò anche Ponto, il mare infecondo, di gonfiore furente, / senza prendere amore; e inoltre, / giacendo con Urano, generò Oceano dai gorghi profondi.
Nel segno dell’acqua, l’incipit è d’obbligo: i versi appena richiamati appartengono alla Teogonia di Esiodo, luogo celebrativo di un pantheon olimpico nel quale gli elementi naturali, oltre che come principi di vita ante litteram, si organizzano anche come personificazioni della potenza divina. E già nei versi esiodei, come si è appena visto, l’ambivalenza delle acque si esplicita in uno iato generativo: da una parte, il gesto partenogenico di Gaia, che dà vita a Ponto, infecondo e furente; dall’altra, l’unione di Gaia con Urano, che genera Oceano dai gorghi profondi. 
Non è facile insinuarsi fra le pieghe delle verità poetiche, e soprattutto non è facile decodificare gli apparenti conflitti che soggiacciono alla narrazione spesso criptica di un mito di fondazione cosmogonica. 
Ci si chiederà così, per cominciare, che senso abbia l’attributo “infecondo” assegnato dal poeta a Ponto, che invece, del tutto infecondo non è. Sarà infatti la stessa Gaia, nel ruolo di madre e di sposa, a generare dall’unione con Ponto i “tre vecchi” del mare: Nereo (a sua volta padre delle 50 Nereidi), Forco (padre di Scilla) e Taumante (che con l’oceanina Elettra genererà Iris e le Arpie).
Diversa e più complessa la genealogia di Oceano, l’altro figlio di Gaia, frutto della sua unione con Urano, che la tradizione omerica (più arcaica di quella esiodea) pone, come divinità fluviale, “all’origine di tutto”. Stando infatti alla lezione omerica, quando tutto aveva avuto origine da lui, Oceano, rifluendo in se stesso in un circolo ininterrotto, continuò a lambire la terra nei suoi margini estremi. La potenza creativa di Oceano non prescinde, tuttavia, dal concorso generativo di una dea dell’acqua primordiale, la Teti, con cui il dio coesiste nella stagione preolimpica, generando con lei tremila fiumi e altrettante ninfe marine, mentre una volta assoggettato al potere di Zeus, si limiterà a fluire in circolo, alimentando con le sue acque sorgenti, fiumi e mari. In piena teogonia olimpica, infatti, il potere sulle acque si trasferirà da Oceano a Poseidone, figlio di Crono e fratello di Zeus.
Laddove Ponto è il flutto della potenza partenogenica e solitaria della grande Dea, Oceano appartiene invece alla schiera dei figli che Gaia ha concepito con Urano e che il padre rinserra nelle viscere della sposa, fin quando Crono (il dio del tempo, il dio dai “ritorti pensieri”) non libererà se stesso e i suoi fratelli dalla cattività uterina. E mentre Ponto (l’infecondo) genera con la madre i “tre vecchi” del mare - divinità originate in un regno ctonio e tenebroso, che danno vita a loro volta a figure femminili potenti e terrifiche - Oceano, come si è detto, genererà dee e ninfe benevole e generose, custodite con amore negli abissi paterni, sorelle di altrettanti fiumi dalle correnti rumorose, tra i quali signoreggia Stige, la dea fluviale annoverata come la figlia più illustre di Oceano e Teti. Stige (da stygein = odiare), che nel suo nome evoca l’odio per quel regno degli Inferi di cui compie per nove volte il giro con il suo corso d’acqua, rimarrà a sua volta per sempre legata al mondo dell’Ade, che le sue acque lambiscono, e non approderà mai nel pantheon olimpico, pur riconoscendone in Zeus il signore: non a caso, la potente dea fluviale invierà a Zeus, nel ruolo di custodi e accompagnatori, i propri figli Crato e Bia (Potenza e Vita), assicurando alla sua discendenza un degno posto nel pantheon rinnovato.
Che le acque originate in sede cosmogonica si situino in uno spazio liminare, tra il mondo umbratile degli inferi e quello consacrato alla vita e alla vis vegetativa ce lo ricorda il mito esemplare e già evocato di Ciane, “l’oscura”, che sgorga come sorgente nel luogo in cui la coppia divina si inabissa e le cui acque verranno recepite come acque sacre, che emergendo dalla notte degli inferi promuovono la purificazione e la rinascita di quanti, immergendovisi, condividono ritualmente l’esperienza mitica di discesa e ritorno della dea. Non a caso il mito di Persefone inaugura la ciclicità del tempo agrario, la continuità di un ritmo stagionale nel quale il buio e la luce, il vuoto vegetale e il rigoglio della natura si organizzano nel kosmos dei cicli produttivi. E non appare pretestuoso immaginare che le acque oscure di Ciane, impregnate della potenza fondante che presiede a tale ciclo, siano acque inaugurali, che introducono nella coscienza mitica non tanto e non solo il tema ciclico dell’eterno ritorno, quanto l’elemento ben più inquietante del divenire idrico. 
«La prima qualità dell’acqua cupa - scrive in proposito Gilbert Durand - è il suo carattere eracliteo. L’acqua cupa è “divenire idrico”. L’acqua che scorre è amaro invito al viaggio senza ritorno: non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume e le rive non risalgono mai alla loro sorgente. L’acqua che scorre è la figura dell’irrevocabile [...], è epifania dell’infelicità del tempo, è clessidra definitiva».
Prima ancora dell’acqua che “ride”, dell’acqua chiara e gioiosa che origina la vita in sede mitica, il mito greco ci introduce quindi in quell’acqua notturna, vischiosa, squamosa, tenebrosa, inafferrabile che allude all’irreparabilità della caduta. Un’acqua nefasta, carica di simboli nictomorfi e al tempo stesso in stretto rapporto di isomorfismo con il lato oscuro di una potenza femminile solitaria (partenogenica e partenofagica), signora incontestata di un pantheon divino non ancora assoggettato al potere di un dio-padre: ci basti evocare Scilla, le Sirene, l’Idra di Lerna, le Arpie, le Graie, le stesse Gorgoni, creature tutte in stretto rapporto di filiazione con quei tre vecchi del mare a loro volta generati da Ponto. Creature dalla femminilità fatale e teriomorfa, queste arcaiche figlie del mare sembrano ratificare in sede mitica l’analogia tra i pericoli dell’onda e quelli della donna: un’analogia rafforzata dai motivi simbolici della capigliatura (geroglifico dell’acqua ondeggiante), dei tentacoli che intrappolano, delle mascelle tridentate che divorano.



Manicheismo dell’acqua, quindi, alle origini del cosmo e della vita: un manicheismo che andrà sanato nel segno di una rifondazione mitica e che spetterà alle divinità del pantheon olimpico riformulare, in primo luogo votando l’archetipo acquatico alla sua vis generativa e alle sue virtù lustrali, quindi neutralizzandone la cupa potenza ofelizzante di segno femminile. Perché ciò sia possibile, l’acqua andrà anzitutto ricondotta alla via umida di un corpo divino di segno maschile. 
Ce lo rammenta il mito che attribuisce la nascita dell’oceano alle lacrime di Crono; oppure il passo esiodeo in cui il membro evirato di Urano insemina le acque dell’oceano, dando vita ad Afrodite, l’amica del sorriso. Saranno ancora le lacrime divine di Prometeo a sostituire l’acqua nel gesto creativo che dà vita ai primi uomini, oppure quelle di Hélios, che alle acque del fiume Eridanio offre il sacrificio di un figlio, il temerario Fetonte.
E poi saranno le divinità femminili schierate nel nuovo ordine teocratico a rigenerare le acque cupe in una prospettiva lustrale che cambia di segno la funzione materna. Prima fra tutte Leto, madre di Artemide e di Apollo, implacabile nella vendetta nei confronti di Niobe, la fiera regina della Lidia che osa rivaleggiare con la dea esaltando la propria prolificità: i suoi dodici figli vengono uccisi dai figli di Leto e i suoi sudditi tramutati in pietra. Inconsolabile nel lutto, Niobe piange ininterrottamente per nove giorni, fin quando Zeus, mosso a pietà, sul monte Sipilo la tramuta in roccia, ingenerando dalle sue lacrime una sorgente d’acqua. E si dice che né la pioggia né la neve abbandonino d’inverno o d’estate la madre piangente, dalle cui ciglia impietrite sgorgano copiose lacrime. La stessa etimologia del nome Niobe, “nevosa”, associata al suo destino di madre primordiale, sembra insistere su una via umida che ratifica sul piano mitico binomi simbolici come acqua-lacrime, acqua-vita, vita-morte.
Azioni eroiche e percorsi iniziatici
L’acqua (mescolata al pianto) appare così come principio liquido che segnala anzitutto la prepotenza della vita in un cosmo regolato dall’azione divina del dio-padre (Zeus, con la metamorfosi, risparmia la vita di Niobe); ma al tempo stesso, nel segno di quel divenire idrico che allude all’irrevocabilità del tempo, la Niobe-roccia piangente segnala anche, in sede mitica, la dialettica vita-morte entro cui sarà possibile modulare le azioni memorabili e i percorsi iniziatici degli eroi omerici.
Primo fra tutti Achille, figlio della dea Teti e del mortale Peleo, il cui nome è strettamente connesso con nomi di divinità fluviali liminari (Acheloo, Achele) e il cui rapporto con le acque marine è fin troppo noto. 
Un mare a cui l’eroe torna costantemente per invocare, nel segno del pianto, l’emersione della figura materna; un mare al quale confida le sue sofferenze e in riva al quale leva i suoi lamenti; un mare nel quale si dice sia stato partorito dalla dea, prima di esser deposto sulla costa della Tessaglia e consegnato al padre mortale. E nel segno di questa contiguità con l’arcana potenza delle acque, in un mito più tardo si narra che Achille abbia subìto la prova iniziatica dell’acqua per volere materno; Teti stessa immerse infatti il figlio nelle acque di Stige, il fiume sotterraneo, per renderlo invulnerabile - eccetto che nel tallone con il quale la madre tratteneva il neonato al momento dell’immersione. 
Del resto, già nell’Iliade è esplicitata la devozione dell’eroe nei confronti di un fiume divinizzato, lo Spercheo, il fiume al quale, per volere del padre, Achille avrebbe dovuto offrire le sue chiome al ritorno in patria; chiome fluenti che invece donerà all’amico Patroclo, per favorirne il viaggio nelle oscurità dell’Ade (dove ritorna l’analogia simbolica tra capigliatura e acque liminari). Il dono votivo mancato si adegua a una consuetudine arcaica volta a segnalare la conclusione di un periodo di noviziato; infatti nell’antica Grecia «ogni nato di sesso maschile dedicava, appena raggiunta l’età dell’efebia, un ricciolo della propria chioma al fiume della sua terra in segno di riconoscenza per esservi stato allevato. E i fiumi venivano chiamati kourotrophoi, allevatori di giovinetti». È grazie alla locale divinità fluviale che il corpo del giovane alle soglie della pubertà raggiunge la sua pienezza, uniformandosi al principio liquido in esso racchiuso e condividendone la corrente dispensatrice di vita. È anche grazie alla complicità con l’acqua sacra della propria terra che l’aion del giovane impubere, il liquido seminale preposto alla riproduzione, può raggiungere la sua pienezza generativa. 
Non a caso gli scoliasti segnalano che nella Grecia arcaica si usava «attingere acqua per il bagno dello sposo da un fiume, quale auspicio per il seme o per la procreazione». Padri mitici, i fiumi del mondo omerico sono anche garanti di una fecondità mutuabile per contatto, per immersione: così, al fiume Scamandro, la vergine troiana dedica nel corso di un bagno rituale la propria verginità, alla vigilia del matrimonio.
È ancora nel segno di una temeraria dimestichezza con il mondo fluviale che Achille può compiere a Troia una strage di nemici, affidando i loro cadaveri alle acque sacre del fiume Scamandro e fronteggiando le ire del dio fluviale, sostenuto dalla complicità divina di Efesto. Non a caso, sarà proprio dinanzi alle due fonti sacre da cui sgorgano due sorgenti dello Scamandro che Achille porterà a compimento la sua vendetta, uccidendo Ettore. E solo allora, disteso sulla riva del mare, consegnando il proprio corpo stremato al ritmo regolare dei flutti delle onde (un ritmo che nel suo caso coincide con la ciclicità del respiro materno), Achille cadrà in un sonno avviluppante che promuoverà l’incontro onirico con l’amico Patroclo. Ancora una volta, l’acqua come interregno iniziatico, come luogo di soglia tra la vita e la morte, come agone fluttuante nel quale si misura la potenza e si delinea il destino dell’eroe.
Quasi senza soluzione di continuità, la statura eroica di Achille si prolunga in quella di Ulisse, anzitutto nel segno dell’acqua. Non è senza significato che entrambi gli eroi facciano il loro ingresso nei rispettivi poemi in uno scenario epico asperso di acqua e di pianto. Achille viene introdotto nell’Iliade in preda a un pianto “fusionale” che lo restituisce alle carezze materne:
Allora Achille scoppiò a piangere e subito si ritirava in disparte,/ e si sedeva in riva al grigio mare./ Guardava la distesa sconfinata delle acque. / E prese ad invocare vivamente sua madre, / tendendo le braccia.
Quanto a Ulisse, l’eroe fa la sua comparsa nel libro V dell’Odissea seduto in riva al mare, piangente, consunto dal desiderio di riprendere, fra i flutti delle onde, la via di un ritorno in patria negato dall’amore di Calipso:
Di giorno sedeva sugli scogli e sul lido / straziando il cuore con lacrime e sospiri e affanni, / e guardava spesso sullo sterile mare e piangeva.
Se lo spazio a nostra disposizione ce lo consentisse, potremmo ripercorrere l’intera Odissea come l’epopea della vittoria di un eroe sui pericoli dell’onda: un’onda marina che, come si è già detto, rafforza l’immagine già emersa in sede mitica di una femminilità fatale e inquietante. Ci limiteremo invece ad evocare in rapida sequenza le Sirene già richiamate, divinità oracolari dal dolce canto, tra le quali una triade mitica godeva di una particolare venerazione che si estendeva fino alle coste tirreniche della Magna Grecia (Partenope, la “vergine”, Leucosia, la “dea bianca” e Ligea, “colei che ha voce chiara”); e ancora Scilla, figlia di Ecate, dea della notte, che dagli antri bui della sua grotta marina latra spaventosamente come una giovane cagna; e poi la divina Cariddi, invisibile agli occhi umani, che fronteggiando Scilla dalla cima di uno scoglio, per tre volte ogni giorno ingoia e restituisce l’acqua del mare; e infine Circe dai bei capelli, la signora dei canti, dei lupi e dei leoni, maga a mezza strada tra le Sirene che introducono al mondo delle ombre e l’affascinante imago materna dell’amante divina: non a caso, è grazie a Circe che Ulisse può attraversare il fiume Oceano dai vortici profondi, la rupe ai cui piedi scorrono le acque degli affluenti dell’Acheronte, i boschi di Persefone dagli sterili platani e infine introdursi, seguendo la “via umida” di acque nictomorfe, nel regno dell’Ade, dove contemplerà per l’ultima volta il volto materno.
In questo senso la discesa agli Inferi dell’eroe omerico appare anche come emblematica conquista culturale di un tempo storico consacrato all’ineluttabilità del “divenire”. Attraverso l’immersione iniziatica nel regno dei morti, fronteggiando lo sguardo dolente di una “madre-ombra”, il sapiente Ulisse potrà riformulare il tema della nascita oltre le soglie profetiche delle acque umbratili. Potrà emergere dal buio alla luce, sottomettendo il tema della nascita all’ideale della “bella morte” eroica: potrà schivare le insidie e le ire di Poseidone, personificazione mitica di un mare in tempesta che perderà i caratteri femminili di “tentazione ondeggiante” e acquisterà un accentuato e rinnovato profilo maschile. Potrà intraprendere la strada del ritorno e consegnare all’eloquenza del tempo storico la sua natura eroica. E se il dominio di Achille sulle acque fluviali ne attestava la funzione di eroe culturale che lotta con gli elementi di una natura indomita, assoggettandola ai principi di un rinnovato equilibrio etico-civile, il viaggio di Ulisse attraverso le insidie del mare è in qualche modo un percorso epifanico che ratifica la sua statura regale.
Non sarà inutile richiamare a questo proposito - nel segno di un’acqua domesticata e asservita all’ordine della sfera domestica - l’episodio che segna la ripresa del tempo reale e il riconoscimento dell’eroe fra le pareti del suo palazzo. Incaricata da Penelope di eseguire un lavacro per lo straniero, Euriclea, l’anziana nutrice di Ulisse, riconosce nel falso ospite l’amato re. Accarezzato dal tepore di un’acqua lustrale che la balia ha versato in un catino lucente, il corpo regale di Ulisse si svela a Euriclea come corpo-memoria; la sua cicatrice racconta la vulnerabilità di ogni mortale, le sue membra stanche danno un senso all’attesa della vecchia balia, i ricordi affiorano nella sua memoria e danno vita al commovente riconoscimento, nel corso del quale l’acqua concorre (assieme al pianto di Euriclea e all’evocazione commossa del suo latte da parte di Ulisse), alla ripresa di un tempo lineare. Un tempo nel quale si sopravvive alla morte soltanto consegnando il proprio destino a un modello eroico; un tempo nel quale “tutto scorre come un fiume” e la matrice immaginale di una ninfa marina si commuta nella dolcezza smarrita di una vecchia balia.
Un tempo riformulato e ricondotto - nel segno del divenire ciclico - ai destini di un’eroe di cui la tragedia attica eredita segni e disegni.
È ancora nel segno di un’acqua votiva che Elettra, nelle Coefore di Eschilo, tenta di lavare l’offesa perpetrata da sua madre Clitemnestra, macchiatasi di uxoricidio, e di risvegliare l’ombra di un padre cui è stata sottratta, oltre che la vita, la potenza generativa: l’acqua versata sulla tomba di Agamennone consentirà anzitutto di reidratare un corpo orrendamente mutilato dal gesto sacrilego dell’evirazione. Un gesto al quale Elettra replica, sottomettendo la libagione acquatica al motivo della religiosità agraria e affidando alla Terra, madre più generosa e più potente, il disegno di giustizia di una figlia tradita:
Dio dell’Inferno, re dei vivi e dei morti,
fa’ che ascoltino questa mia preghiera gli spiriti che stanno sotto terra, testimoni
implacabili dell’assassinio di mio padre,
e la Terra stessa, madre di tutti noi, 
che ci ha nutriti, e in sé ci raccoglie, 
a germinare nuove vite - mentre versando quest’acqua sacra ai morti, io prego mio padre
L’offerta votiva di Elettra si accorda peraltro con le consuetudini più arcaiche relative al culto dei morti, che consistevano anzitutto nel versare acqua sui loro corpi e sulle loro tombe: acqua che veniva ricevuta e bevuta direttamente dalla psyché disidratata del defluito. 
«Per le ossa - scrive in proposito Onians - si trattava di un bagno (loutròn), inteso non a lavare, bensì, come il bagno nuziale, a trasmettere il fluido vitale, come accade con il vino e il grasso che circondano le ossa di Patroclo nel recipiente che le contiene. In ciò probabilmente risiede la spiegazione della notoria pratica minoica di seppellire i defunti in un bagno; e al liquido della vita era forse originariamente connesso, come suo veicolo o simbolo, il recipiente, spesso forato alla base, che veniva collocato sulle tombe. Allo stesso modo si potrebbe spiegare la credenza che nell’oltretomba gli “impuri” o i non iniziati debbano eternamente quanto infruttuosamente attingere acqua, nel tentativo di riempire un recipiente dal quale invece fuoriesce, mentre i “puri” godono di una “sempiterna ubriachezza”».
In un binomio simbolico ormai familiare, l’offerta di Elettra sulla tomba del padre trova eco immediata in un tributo di lacrime da parte del coro delle Coefore. Ed è nel segno di un’altra analogia già menzionata che, a questo punto, il rinvenimento di una ciocca di capelli deposta da Oreste sulla tomba del padre proietta il gesto votivo di Elettra nel circuito esemplare di una rinascita simbolica: la portata del dono votivo di Oreste appare infatti coerente con l’esempio epico di Achille. Tenendo fede a un obbligo rituale di cui già il Pelide avvertiva la sacralità, anche Oreste, al suo arrivo ad Argo, offre una ciocca della propria chioma al padre defunto e un’altra al fiume Inaco, kourotrophos della sua terra. Acqua e capelli, di cui abbiamo intuito la portata (e l’ambiguità) semantica in sede mitica, si affidano nel linguaggio poetico a un nuovo progetto fondativo. 
Se Elettra, figlia votata alla fedeltà del modello patrilineare, può convertire il dono votivo dell’acqua in strumento di vendetta, Oreste, a sua volta, piegherà l’equivoca specularità dei capelli con il motivo acquatico alla progettualità di un percorso iniziatico di morte-rinascita. E in questa luce le lacrime che Elettra versa alla vista delle chiome fraterne, «il pianto disperato» che scende dai suoi occhi «come un rovescio di pioggia» si offrirà quale metafora idrica dell’ineluttabilità del divenire storico: il matricidio del fratello restituirà infatti i legami di sangue a leggi umane e divine che esaltano la solidità di una stirpe unitaria sorretta da una continuità patrilineare.




Specchi d’acqua come presagi dell’abisso
Se l’acqua versata da Elettra ha lo scopo di placare la sete del padre defunto, l’acqua invocata da Fedra - consunta dall’amore per il figliastro Ippolito, che dà il titolo alla tragedia euripidea - torna a riassumere sulla scena tragica lo specchio deformante di una potenza nefasta associata al desiderio solitario di creature femminili segnate da una natura “ondivaga”, e ancora sensibili al richiamo di una natura ferinica. Appare allora emblematico l’ingresso sulla scena di una Fedra scomposta dal desiderio, i cui capelli sciolti ricadono sulle spalle dolenti e la cui brama di acqua “purissima” attinta da sorgenti boschive induce la nutrice a stemperare l’accento osceno del suo desiderio. E a ben vedere, il tema dell’acqua nella tragedia euripidea introduce senza margini di ambiguità simbolica la complessa vicenda dell’infelice regina di Trezene. Così il coro fa ingresso sulla scena evocando quell’acqua lustrale che prelude ai piaceri e ai doveri della sposa:
C’è una scogliera che stilla l’acqua marina: da su / rupi rovesciano giù una fonte che colma brocche. / Un’amica mia colà /vesti splendide / nel fiume rorido / lavava, e poi / sopra le spalle solatìe della pietra stendeva; e io / seppi della padrona proprio là
L’acqua di una fonte domesticata nel segno dell’operosità femminile contrasta, nelle parole del coro, con l’indole di una padrona assalita da un “vento” che percuote il suo grembo, “e mesce alle doglie del parto follia”.


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