4. ARMENIA di Maurice Leroy

Leroy Maurice, L’Arménie et les Arméniens, in Bulletin de la Classe des lettres et des sciences morales et politiques, vol. 72, 1986. pp. 140-157


Maurice Leroy (1909- 1990) è stato armenologo e linguista belga ben noto a livello internazionale. Specializzatosi nello studio dell’agiografia bizantina e si è avvicinato all’armeno. Ufficiale della riserva, combatté nella campagna del 1939-1940 e restò nei campi di prigionia tedeschi (Prenzlau e Fischbeck) i cinque anni successivi. È stato un pioniere nel campo della storia della linguistica. La conferenza sulla storia dell’Armenia che qui riproduciamo venne tenuta poche settimane dopo il comparire di attentati terroristici ritenuti di ispirazione armena.


 
Il terrorismo, sotto forma di assassinio, attacco armato, presa di ostaggi o dirottamento, è diventato una caratteristica comune della vita politica negli ultimi decenni ed è quasi considerato da alcuni come un modo normale o obbligatorio di agire, con motivazioni ideologiche, sociali, nazionaliste o razziste invocate a seconda dei casi. Se il Medio Oriente è particolarmente violento da questo punto di vista, l’Europa non si è risparmiata, tutt’altro, e nemmeno gli altri continenti.
Tuttavia, in mezzo alla marea di informazioni allarmanti che i media riversano quasi quotidianamente, un dato in particolare ha sorpreso molti osservatori negli ultimi anni: gli attacchi perpetrati in Europa e negli Stati Uniti contro diplomatici e personaggi pubblici turchi da parte di gruppi che si dichiarano armeni. Così la questione armena, su cui sembrava essere calato un velo di oblio da circa settant’anni, è tornata alla ribalta. Gli eventi che si svolsero in Turchia nel 1915 costituirono un orribile genocidio, precursore del sinistro Nacht und Nebel che, nella Germania nazista degli anni Quaranta, portò allo sterminio delle comunità ebraiche che avevano la sfortuna di vivere nei territori controllati dal Terzo Reich. 

Torniamo alla Turchia ottomana di inizio secolo. La rivoluzione turca del luglio 1908 permise a un gruppo noto come Giovani Turchi di prendere il potere in seguito a un ammutinamento a Salonicco. Sebbene questi putschisti si affrettassero a proclamare l’uguaglianza di tutti i cittadini e la libertà politica e religiosa, divenne presto chiaro - attraverso elezioni truccate e pressioni di ogni tipo - che il loro vero obiettivo era l’islamizzazione e la turchizzazione dell’Impero Ottomano, e non lesinarono l’estremo: l’eliminazione delle comunità non islamiche, in particolare della comunità cristiana armena, che all’epoca contava circa 2.400.000 membri. 
Già nel 1909, 30.000 armeni furono massacrati ad Adana, in Cilicia, ma il peggio doveva arrivare nel 1915. Il governo turco, coinvolto nel conflitto mondiale a fianco degli Imperi Centrali, prese a pretesto la formazione in Russia di una legione armena che combatteva con le truppe alleate per accusare gli armeni di Turchia di sovversione; diede ordini spietati che potevano portare solo allo sterminio della popolazione armena. Intellettuali, commercianti, operai e contadini furono massacrati o deportati, ma in condizioni tali che la maggior parte di loro morì durante il viaggio senza trovare la terra d’esilio; questo genocidio, perpetrato consapevolmente, fece più di un milione di vittime. Oggi in Turchia sono rimasti solo circa 50.000-60.000 armeni, soprattutto a Istanbul.
È vero che oggi esiste uno Stato armeno: la Repubblica Sovietica di Armenia nel Caucaso, il cui territorio rappresenta oggi solo un decimo di quello che nel I secolo a.C. era il Regno di Armenia sotto Tigran il Grande; questo Stato conta circa 3.300.000 abitanti che non sono trattati né meglio né peggio degli altri abitanti dell’URSS, Circa un milione e mezzo di cittadini di origine armena si trovano anche in altre repubbliche sovietiche, in particolare in Georgia e in Azerbaigian. Per quanto riguarda gli armeni della diaspora, essi sono circa 3.000.000, di cui 1.000.000 negli Stati Uniti; il Libano, che prima della guerra civile aveva una colonia armena di circa 200.000 anime vede questa cifra ridursi di giorno in giorno; quasi 300.000 vivono in Francia, soprattutto a Marsiglia (il porto attraverso il quale sono entrati nel Paese), Parigi e Lione; sono molto meno numerosi in Belgio (800 dieci anni fa, circa 1.500-2.000 oggi, un numero che si aggira intorno ai 2.000 abitanti) un aumento che si spiega con la situazione travagliata del Libano; altri ancora si sono stabiliti in Siria, Egitto, Cipro, Grecia e Iran.


Tutti loro, a prescindere dal paese di adozione, si sono integrati mirabilmente nella loro nuova patria, di cui sono spesso elementi molto rappresentativi e che contribuiscono a valorizzare. In Francia, si guardi a un romanziere come Henri Troyat, a un cantante come Aznavour, e si ricordi la recente pubblicazione del bel romanzo di Henri Verneuil (il cui vero nome è Achod Malakian), Mayrig, cioè “Maman”; questo libro commovente, scritto con grande sensibilità, racconta la storia di come una famiglia di emigranti appena scampata al massacro si adatta alla vita occidentale a Marsiglia, assimilando gradualmente il nostro modo di vivere.
Gli attacchi antiturchi di cui abbiamo parlato poc’anzi e che, va detto, hanno suscitato una diffusa disapprovazione tra i nostri concittadini di origine armena, sono opera di giovani estremisti riuniti in un’organizzazione clandestina, l’Esercito di Liberazione del Popolo Armeno, il cui quartier generale sembra essere in Libano e il cui scopo dichiarato è quello di vendicare la generazione dei loro nonni. Va notato che, contrariamente all’atteggiamento dei leader tedeschi nel dopoguerra, il governo turco ha sempre rifiutato ostinatamente di riconoscere la realtà del genocidio, sostenendo che all’epoca si trattava semplicemente di trasferire la popolazione, cosa che le autorità erano state costrette a fare perché gli armeni, provocati da potenze straniere, si erano sollevati e avevano minacciato le retrovie delle truppe ottomane. I turchi sostengono questa posizione contro la schiacciante testimonianza di testimoni e sopravvissuti e contro le prove dei documenti diplomatici che furono presentati ai negoziati che portarono ai trattati di Sèvres nel 1920 e di Losanna nel 1923. L’obiettivo dichiarato dei movimenti terroristici armeni - peraltro divisi in diverse fazioni rivali - è quello di costringere la Turchia a riconoscere il genocidio e, di conseguenza, a offrire un giusto risarcimento.
Ma ciò che sembra sorprendente e difficile da spiegare è la tempistica. Perché, dopo sessant’anni di calma, questa improvvisa esplosione di rabbia, perché questa violenza tra giovani che non hanno mai conosciuto l’Impero Ottomano, che sono i nipoti dei martiri del 1915? Non c’è dubbio che il clima di insicurezza permanente e di disordini armati in cui il Libano è immerso da circa quindici anni favorisca l’insorgere della febbre, ma ciò non basta a spiegare la brutalità di queste azioni. In effetti, i sopravvissuti del 1915 hanno dovuto prima cercare faticosamente un Paese di accoglienza e tentare, a costo di mille difficoltà, di farsi spazio nella loro nuova patria, e la generazione dei loro figli aveva ancora come principale preoccupazione quella di consolidare la propria situazione sociale e di integrarsi al meglio in un ambiente che le stava diventando familiare. Di conseguenza, i giovani di oggi sono diventati più disponibili a riflettere sulla storia della loro nazione; il senso della loro identità culturale che, anche negli anni più bui e crudeli, gli armeni hanno sempre mantenuto profondamente radicato dentro di loro, è probabilmente il fermento che spinge ad azioni deplorevoli alcuni spiriti esaltati che costituiscono solo una piccolissima frangia della comunità armena.
Nel corso di una storia troppo spesso costellata di eventi tragici, gli armeni, sia che vivano nel Caucaso o nella diaspora, sia che facciano parte di un ambiente russo, orientale, europeo o americano, sono sempre consapevoli di essere membra disiecta (membri separati) di una stessa nazione, lo stesso popolo dolorosamente lacerato dalle circostanze. 
Con una speranza che può sembrare irragionevole ma non per questo meno profonda, ricordano i tempi antichi e guardano ostinatamente verso la patria perduta. Da Erevan, la capitale della piccola Armenia sovietica, nelle giornate limpide si può vedere la cima del Monte Ararat; in molte occasioni abbiamo visto armeni, e in particolare armeni della diaspora in visita ai loro fratelli del Caucaso, alzare lo sguardo con emozione mal contenuta verso questo simbolo della loro patria, che oggi si trova in territorio proibito.
Ma cos’è questa cultura armena così profondamente radicata nei cuori e nelle menti di sei o sette milioni di persone sparse in tutto il mondo?


Già nel terzo millennio a.C., se non già nel quarto, in un luogo che possiamo collocare con la massima probabilità e sulla base delle prove più solide, nella vasta pianura tra il Danubio e il Volga, una popolazione operosa, piena di vita, guidata da capi intelligenti e audaci, si mise in marcia e, in un movimento migratorio che durò fino ai tempi moderni, partì alla conquista di nuove terre. Questi uomini sono quelli che chiamiamo Indoeuropei. Possiamo pensare a loro, un po’ come alle città greche dell’epoca classica o alle satrapie dell’Impero achemenide, come a un gruppo di tribù abbastanza vicine da giustificare l’unità dei loro dialetti, ma con legami abbastanza allentati da spiegare la frammentazione che vediamo già prima della loro dispersione. 


Come i loro contemporanei mesopotamici, utilizzavano armi metalliche (siamo all’inizio dell’età del rame), ma avevano due grandi vantaggi rispetto ai loro avversari. In primo luogo, introdussero per primi l’uso del cavallo nel mondo mediterraneo e mesopotamico, dove impararono per primi ad addestrarlo dalle popolazioni asiatiche; queste ultime, dal canto loro, utilizzavano solo asini, certamente preziosi nella vita quotidiana, ma le cui virtù belliche non erano molto eclatanti. D’altra parte, furono gli indoeuropei a introdurre una tecnica che, fin dall’antichità e in particolare nel nostro tempo, ha condizionato la nostra esistenza a tal punto che è sorprendente che l’umanità abbia potuto vivere così a lungo senza utilizzarla: si tratta della ruota, o più precisamente del principio dell’asse che, collegando due ruote, permette di costruire carri: da oggi è il treno che accompagna gli eserciti e favorisce le migrazioni di massa.
L’unità indoeuropea esplose così in una serie di movimenti migratori che avrebbero coperto gran parte dell’Asia centrale e occidentale e sommerso il continente europeo. Certo, sono molte le cose che non sappiamo: alcuni potrebbero aver fallito nei loro piani, le fondazioni potrebbero essere scomparse senza lasciare traccia, i periodi brillanti potrebbero non aver avuto futuro. Ma per ogni fallimento, ci sono stati successi folgoranti: la diffusione degli Indoeuropei attraverso il tempo e lo spazio rimane un’avventura sorprendente e una delle epopee più prestigiose del nostro mondo da quando i documenti ci hanno permesso di ripercorrerne la storia. 
Uno dei loro successi più notevoli è stata la straordinaria diffusione dei loro dialetti, prima nell’antichità e poi di nuovo a partire dal XVI secolo in seguito alle grandi scoperte e alla colonizzazione, quando le lingue della famiglia indoeuropea si sono diffuse in tutti e cinque i continenti. La struttura stessa dell’indoeuropeo - un idioma ricco e flessibile, capace di adattarsi alle più diverse condizioni di vita sociale - ha indubbiamente giocato un ruolo importante nella sua diffusione, ma il fattore decisivo è rimasto la superiorità culturale raggiunta grazie alla riuscita fusione delle qualità proprie degli invasori con quelle delle popolazioni sottomesse; perché la vera supremazia di una lingua sta nella brillantezza e nella risonanza della civiltà di cui è espressione.

 
Gli armeni sono uno dei momenti di questa espansione prodigiosa; essi costituiscono uno di quei gruppi che, portando con sé un fondo di tradizioni comuni - linguistiche, sociali e religiose -, nel corso dei secoli, modellandosi su nuove realtà, modificano le caratteristiche originarie e creano una struttura originale.
Mentre i Greci e gli Italioti si diffondevano in tutto il bacino del Mediterraneo, i Celti e i popoli germanici si spingevano verso ovest, mentre i Balti e gli Slavi sembrano essere stati i meno migratori di tutti, una serie di tribù cercò l’avventura a est. I Tokhariani si insediarono nel cuore del continente asiatico, gli Ariani penetrarono nell’altopiano iraniano intorno al 12° sec. per poi dividersi in Indiani e Iraniani, gli Ittiti attraversarono il Bosforo intorno al 2000 e fondarono un potente impero in Asia Minore. A loro seguirono gli Armeni - la cui parentela con i Traco-Frigi era affermata dagli Antichi e sembra confermata dall’esame linguistico (solo la scarsità di documenti traci e frigi potrebbe far esitare) - ma la rotta che seguirono e le tappe che attraversarono ci restano sconosciute. 


In ogni caso, fu intorno al 10° sec. a.C. che conquistarono il regno di Urartu - la cui popolazione parlava una lingua asiatica talvolta chiamata vannica, dalla capitale sul sito di Van - e si insediarono nel loro habitat storico: le regioni montuose intorno alle sorgenti dei fiumi Eufrate e Tigri, il monte Ararat e i suoi dintorni, le rive del lago di Van e le sponde del fiume Arax.
Rispetto ad altre nazioni indoeuropee, gli armeni hanno una caratteristica notevole: sono stati tagliati fuori molto presto da ogni contatto con gli altri membri della famiglia e circondati da popolazioni alloglotte. Naturalmente, questo deve essere accaduto molte volte; i Tokhariani, ad esempio, hanno visto la loro cultura affondare e perdersi nelle sabbie del Turkestan e altri migranti sono stati, volenti o nolenti, assorbiti da coloro tra i quali si erano infiltrati. Gli armeni, invece, nonostante il loro isolamento, hanno conservato la loro lingua, salvaguardando così le loro tradizioni intellettuali. Se di miracolo armeno si può parlare, è proprio questa tenace conservazione della lingua che è in gioco, e un paragone è d’obbligo, per quanto riguarda le lingue romanze - lingue derivate dal latino che l’Impero romano aveva diffuso in gran parte dell’Europa - con il romeno, che, pur essendo tagliato fuori dal mondo latino dal III secolo, ha comunque conservato la sua lingua romanza con una fedeltà commovente.

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