1. Mozarabi

 
Spagna del nord, là dove la meseta si incontra coi monti Cantabrici. Un mondo duro, talora quasi inospitale. Spesso povero, come se il progresso della Spagna degli ultimi anni abbia raggiunto queste terre solo marginalmente.
Le grandi distese di grano della Castiglia e del León. Le miniere dei monti delle Asturie.
È in queste terre che si concentra una parte importante dell’arte mozarabica.

Chi furono i mozarabi? quale la loro cultura? La vicenda di questi uomini e di questa cultura è tutta riassunta in un paradosso: la maggior parte delle opere d'arte che ancora oggi vediamo come testimonianza della cultura mozarabica, è conservata in province che erano al di fuori delle regioni della penisola ancora sotto il dominio islamico.

Il testo – con semplificazioni e qualche rimaneggiamento – è quello di Jacques Fontaine, L’art préroman hispanique, vol. II – L’art mozarabe. Edizioni Zodiaque – la nuits de temps, 1977, Abbaye Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire, Yonne, Borgogna - Francia

 

 

I fatti vengono prima delle parole.
Il nome mozarabe non compare fino ai primi fueros[1] concessi agli abitanti di Toledo dai re cristiani riconquistatori, all'inizio del X secolo: ancora la grafia oscillava tra muztarabi o muzarabi. La forma attuale della parola spagnola mozarabes appare poco dopo in un documento indirizzato da Alfonso I di Aragona detto il Battagliero ai cristiani dell'Andalusia.
Gli storici di oggi sono arrivati a usare questo nome in modo generico per designare tutti i cristiani della penisola iberica che vissero sotto la dominazione politica islamica tra l'invasione araba del 711 e la riconquista di Granada nel 1493. Eppure la maggior parte di ciò che chiamiamo arte mozarabica è sorta in zone cristiane, al di fuori dunque dell'area controllata dal potere islamico.
Sembrerebbe un paradosso. È indubbio, tuttavia, che la parola sia legata all'arabo. Per i genealogisti arabi le antiche tribù del nord della penisola arabica erano mustariba: un participio che significa 'arabizzati' o 'coloro che si sono sforzati di arabizzarsi'. Per l'arcivescovo Ximénès l'origine della parola sarebbe da cercarsi nel latino: i mozarabi sarebbero dunque come "arabi misti" - mixti Arabes - perché vivevano con gli arabi, si mescolavano con loro...". Oggi sappiamo che la parola non ha alcuna origine latina, ma in qualche pur fortunoso modo Ximénès ne aveva intuito il senso giusto.
 Ma in Spagna? e prima del XII secolo? Per gli arabi, i sudditi cristiani potevano essere identificati come cristiani (nazareni - nasrâni, rumi, talvolta 'associazionisti', cioè politeisti, a causa della loro fede trinitaria...), ma anche come sudditi (stranieri, clienti, tributari...). Per i cristiani dei regni della reconquista, questi fratelli del sud erano semplicemente spagnoli (Spani o Hispani); un termine che non avrebbero mai applicato - cosa che vale la pena notare e che invita a riflettere - ai sudditi dei re di Oviedo o di León, o dei conti di Catalogna.
Per chiarire queste ambiguità e tentare di vedere attraverso questo imbroglio lessicale, dobbiamo iniziare a risalire all'origine della parola, o meglio alla sua genesi. Dalla conquista al completamento della riconquista, infatti, quasi otto secoli hanno costantemente plasmato la coscienza storica dei mozarabi, nel loro duplice rapporto: con i padroni islamici che si sono succeduti e con i cristiani dei regni delle reconquista nei quali si sono progressivamente trovati inseriti, sia per esodo volontario sia per effetto della riconquista.

Il crollo del regno visigoto (711)
Dilaniato dalle fazioni reali, paralizzato dalla crescente impotenza dello Stato, devastato dagli abusi dei grandi e da un crudele antisemitismo, il regno visigoto di Toledo crollò come un castello di carte all'indomani del disastro inflitto all'esercito gotico-spagnolo sulle rive del Guadalete nel 711 dalle truppe "arabe" comandate da Tarik e Muza. In pochi anni, queste truppe sarebbero penetrate fino ai Pirenei cantabrici dove si sarebbero poi scontrate con gli inizi di una resistenza congiunta asturiano-gotica.
La maggior parte degli otto milioni di sudditi del regno di Toledo, rimasti nelle città e nelle campagne, cominciò a respirare sotto più tolleranti padroni. Come i Romani di un tempo, e anche meglio di loro, gli Arabi erano decisi a non iniziare abusando delle loro conquiste. A modo loro, applicarono il motto virgiliano: "Parcere subiectis et debellare superbos" (risparmiare i vinti e debellare i superbi).
Agli spagnoli che si affrettarono a sottomettersi, come gli abitanti di Merida, non solo fu risparmiata la vita, ma furono anche conservate le libertà e le proprietà, in cambio del pagamento di un'imposta fondiaria e di una tassa per persona.
Anche i nobili non persero tutti i loro privilegi. I figli del re Witiza, che si erano appellati agli Arabi nello stesso modo in cui il re Athanagilde si era appellato ai Bizantini, mantennero il loro titolo di principi e un vasto patrimonio fondiario. Nel V secolo d.C. il processo di feudalizzazione era talmente avanzato che alcuni grandi uomini divennero vassalli dei nuovi padroni, conservando il dominio personale e le rendite di una vasta regione. L'esempio più illustre è quello del goto Teodemiro, che si ritagliò nel Levante un regno taifa[2] prima del tempo, da Valencia a Orihuela.
 
Ma e c'è di più.
Come per gli ebrei, i credenti dell'Islam si sentivano legati ai cristiani proprio dal rispetto che il Profeta aveva espresso nella Sura 5, 73 del Corano: "I cristiani - coloro che credono in Dio e nell'Ultimo Giorno e che compiono azioni pie - non temano per loro e non si rattristino".
I primi patti firmati in Oriente nel VII secolo tra Maometto e le popolazioni cristiane garantivano a queste ultime la protezione delle loro persone e dei loro beni religiosi.
Nonostante le successive affermazioni di cronisti cristiani e arabi, gli inizi della conquista araba della Spagna non furono probabilmente più idilliaci o disastrosi dell'insicurezza e delle distruzioni causate dal caos senza fine delle invasioni del V secolo. Battaglie infinite, ribellioni e regolamenti di conti tra arabi e berberi, yemeniti e qaisiti, difficilmente diedero ai primi invasori islamici della penisola il tempo di pensare ai loro nuovi sudditi in Spagna, o soprattutto di considerare l'espansione della fede islamica tra la popolazione della penisola. Anche in mezzo a questo disordine endemico, il primo mezzo secolo di Islam in Spagna permise agli ex sudditi dei re visigoti di mantenere le strutture amministrative e religiose della loro società, se non di consolidarle in una situazione più incerta ma paradossalmente più liberale di quella che si era creata negli ultimi decenni della Spagna visigota.
 
Al Andalus (756)
Le cose cominciarono a cambiare quando il califfo l'omayyade Abd-er- Rahman, che si era rifugiato in Spagna dalla Siria, fu proclamato emiro di Al Andalus nella moschea di Cordova nel 756. Questo discendente della prima dinastia di califfi Omayyadi di Damasco fu il vero fondatore dell'Emirato d'Occidente. Con lui, l'Islam in Spagna divenne una brillante monarchia, la cui autorità si affermò contemporaneamente alla sua intolleranza. Abd-er-Rahman I sedò le ribellioni a Merida e Beja, a Toledo e Saragozza. Organizzò l'amministrazione islamica della Spagna araba e distrusse molti edifici cristiani al passaggio del suo esercito. Espropriò la seconda metà della Chiesa di San Vincenzo a Córdoba, che non era ancora stata trasformata in moschea, e fece costruire il primo terzo della grande moschea che conosciamo oggi lungo il Cortile degli Aranci. Confiscò feudi cristiani, come quelli di Ardabaste e Atanagildo, e incoraggiò i matrimoni misti in cui i figli di padri musulmani dovevano essere educati all'Islam.
Fu a partire dalla seconda metà del VIII° secolo che masse di spagnoli meridionali si convertirono, volontariamente o con la forza, alla religione dei loro padroni. Questi rinnegati del cristianesimo, i muladi (dall'arabo mowalad: adottati, ovvero convertiti all’islam), saranno gli artefici delle grandi rivolte del IX secolo.
Tenuti in eguale diffidenza sia dai cristiani che dai musulmani di origine islamica, esasperarono l'ostilità verso i cristiani dei teologi ortodossi dell'Islam andaluso, i faqih, la cui influenza sarebbe cresciuta sui successori di Abd-er-Rahman I. Questa influenza si rafforzò a partire dalla morte di Abd-er-Rahman. Dal regno del suo successore Hisham I (796-822), questa influenza fu rafforzata dall'ortodossia rigorista della dottrina malikita, insegnata per la prima volta dal maestro medinese Malik ben Anas, morto nel 796.
In questo periodo, nuovi fattori contribuirono a inasprire le relazioni tra arabi e spagnoli, sia rinnegati che cristiani. In primo luogo la sanguinosa repressione delle rivolte, in cui, sempre più spesso, muladi e cristiani si trovarono in collusione implicita o palese: repressione contro l'insurrezione, come quella che rase al suolo un intero sobborgo di Cordova (818); o repressione preventiva, come il terribile "Giorno della Fossa", durante il quale un muladi, nominato governatore di Toledo dall'emiro, invitò e fece giustiziare a tradimento decine di notabili dell'antica capitale visigota, così spesso ribelle.
A queste guerre civili endemiche si aggiungeva il crescente pericolo di una riconquista cristiana. Ciò era favorito dagli interventi carolingi nel bacino dell'Ebro e in Catalogna e dalla stretta relazione tra Carlo Magno e Alfonso II il Casto, la cui ambizione di riconquista si stava già manifestando in Galizia e sull'Ebro: il re di Oviedo saccheggiò Lisbona nel 798, un anno prima della rivolta dei baschi di Navarra e tre anni prima della riconquista cristiana di Barcellona nell'801.
In questo clima di tensione, i mozarabi mantennero comunque le loro chiese e i loro monasteri, anche nella capitale cordovana, dove la corte e la popolazione araba li spinsero in periferia. Avevano uno stato speciale. I loro affari legali non erano regolati da un cadi, ma da un censor o iudex; la loro tassazione era gestita per conto dell'emiro da un esattore che riscuoteva il tributo (jarach); il "conte di Córdoba" trattava direttamente con il califfo.
La gerarchia ecclesiastica rimase in vigore in molte città: nel IX secolo, diversi concili si riunirono a Cordova, sotto la supervisione del califfo - in questo senso vero successore degli imperatori cristiani e dei re visigoti. Ma ci furono molte defezioni. La fede cristiana si affievolì di fronte alle attrattive materiali e persino intellettuali della nuova e brillante civiltà islamica di Al Andalus.
Nella stessa capitale si formò un'élite di cristiani. A metà del secolo, il dotto laico Alvaro di Cordova divenne l'esaltato portavoce di questo piccolo gregge. Secondo lui, i cristiani che lavoravano a palazzo "si guardavano bene dal proclamare Cristo Dio, ma si accontentavano di parole evasive" di fronte ai musulmani, senza esporsi né pregare. Adottavano gli abiti e i profumi lussuosi dei loro padroni arabi e si preoccupavano soprattutto di arricchire le loro famiglie. Un certo ottuagenario di nome Romanus, denunciato dall'Abate Sansone, arrivò persino ad adottare la poligamia e, "mostrando scarso riguardo per i precetti del Vangelo, colleziona concubine per estendere la sua lussuria...".
Mentre la morale si arabizzava, il proselitismo dottrinale islamico indeboliva la fede: "Quale laico istruito c'è oggi tra i nostri fedeli", si chiedeva amaramente Alvare, "che presti attenzione ai volumi della Sacra Scrittura e agli scritti latini di qualcuno dei nostri dottori? Anche ai chierici bisogna ricordare il significato del loro abito clericale, per evitare che, ignari del significato spirituale delle loro vesti, vadano in giro con l'aspetto degli empi e imitino i costumi degli infedeli, nei quali non c'è saggezza."
 
Resistenza cristiana
La reazione contro questa secolarizzazione e arabizzazione, che ha portato tanti mozarabi a diventare conversi, o almeno a lasciare che la loro fede appassisse nell'indifferenza si sviluppò su diversi livelli. Divenne attrazione per la vita monastica e per un cristianesimo esigente, ascetico e mistico; rese popolare la lettura delle Passioni dei martiri di un tempo - ispanici in particolare; incentivò l'accoglienza dei monaci provenienti dall'Oriente, che portavano notizie di appassionati colloqui teologici tra cristiani e musulmani e della resistenza spirituale di queste cristianità lontane; infine, divenne incoraggiamento ai cristiani liberi del Nord a resistere all'oppressione in modo molto più concreto.
Tutti questi diversi fattori spiegano il movimento spirituale dei martiri volontari di Cordova. Nel decennio che intercorre tra l'esecuzione del sacerdote Perfectus nell'851 e quella di Eulogio, sacerdote della Basilica di Saint-Zoellus e già eletto arcivescovo di Toledo nell'859, una cinquantina di cordobani mozarabici scelsero di testimoniare pubblicamente la propria fede e di andare incontro al martirio. Tra questi martiri c'erano anche monaci come l'orientale Giorgio, proveniente dal monastero palestinese di San Saba; giovani laiche come le vergini Leocritia e Flora; sposi con famiglia, come Aurelio e Sabigotho: entrambi "cristiani occulti", condannati a professare l'Islam per nascita, essendo di genitori musulmani nel caso del primo, e di padre musulmano e madre cristiana nel caso del secondo. I matrimoni misti furono quindi come la spada affilata che divideva spiritualmente la comunità mozarabica: fattore di islamizzazione il più delle volte, giocarono anche un ruolo decisivo in quelle vocazioni al cristianesimo eroico (l'apostasia dall'Islam portava alla condanna a morte) come quella di questi due coniugi.
Questa divisione apparve a Cordova fin dall'inizio del movimento, nel Concilio dell'851 convocato da Abd-er-Rahman II, che era rappresentato da un exceptor mozarabo. I vescovi cedettero alle pressioni del palazzo e condannarono il martirio volontario. Tuttavia, non fermarono il movimento, che culminò con la morte di Eulogio come combattente per la fede. Gli eventi furono limitati, i testimoni che morirono per la loro fede pochi e lontani tra loro, ma le ripercussioni furono notevoli. Nell'858, i monaci Usuard e Odilard riportarono a Parigi, nella loro abbazia di Saint-Germain des Prés, i preziosi corpi dei monaci Giorgio, Aurelio e Sabigotone. Il 9 gennaio 884, il re Alfonso III il Grande accolse solennemente a Oviedo le spoglie di Eulogio e Leocrizia, riportate da Cordova dall'ambasciata del monaco Dulcidius. Ci furono ancora martiri isolati nella Cordova del X secolo, come il giovane prigioniero galiziano Pelagio (nel 925), la cui Passione fu scritta in versi dalla monaca tedesca Hrotsvitha...

I martiri di Cordova divennero subito simboli pericolosi, perché esemplari, della resistenza cristiana dei mozarabi. Costrinsero i cristiani di Mozarabia a fare un esame di coscienza, obbligandoli ad affrontare pericoli decisivi - sia temporali che spirituali - o a capitolare nell'apostasia. La maggioranza sarebbe sprofondata in un inevitabile compromesso con un califfato oppressivo, con una civiltà seducente in cui sarebbe stato sempre più difficile essere fedeli alla morale e alla fede cristiana.
Alcuni, tuttavia, si mantennero vivi nel cuore di comunità, soprattutto nell'isolamento delle campagne: ne sono testimonianza quelle che Alfonso VI trovò nella riconquistata Toledo, e in tutta la provincia ancor più che nella sua capitale, alla fine dell'XI secolo. Sopravvissero a persecuzioni e repressioni, grazie soprattutto alla loro posizione geografica privilegiata tra i regni cristiani a nord e l'Islam a sud.
Ma altri mozarabi scelsero, più eroicamente, la strada della ribellione aperta a fianco dei muladi che simpatizzavano per i cristiani. È il caso di Omar-ben-Arab Hafsun che, tra la fine del IX secolo e l'inizio del X, tenne in scacco gli eserciti dell'Emiro per cinquant'anni nelle montagne di Ronda e Malaga.
 
L'esodo verso nord (IX° secolo) e il ripopolamento delle terre di frontiera
Altri, e questi sono di particolare interesse per noi, optarono per l'esodo verso le terre cristiane: in Catalogna, in Navarra e nella futura Castiglia, ma soprattutto nel regno delle Asturie che, dall'880, quando Alfonso III trasferì la sua capitale da Oviedo all'antica Legionem (rioccupata nell'856), divenne il regno di León. Fu soprattutto da questa parte che si diressero i cordovani e toledani. Un esodo nel pieno senso della parola. Per molti monaci, in particolare, questo spostamento verso nord non fece altro che continuare e completare l'esodo dal mondo che avevano iniziato quando avevano lasciato Córdoba per uno dei tanti monasteri fondati - probabilmente in gran parte in epoca visigota - nelle sierras circostanti, in particolare a nord della capitale, nella Sierra Morena.
Di fatto, questo esodo aveva avuto inizio fin dalle origini del Regno delle Asturie. L'afflusso di profughi aveva fatto ben presto di Oviedo la "città dei vescovi", e abbiamo visto che la presenza di artisti mozarabici è riscontrabile proprio nel cuore della provincia, negli ultimi monumenti dell'arte asturiana: a Tuñon alla fine del IX secolo, a Valdedios all'inizio del X.
Ciò dimostra, a maggior ragione, l'importanza dell'immigrazione mozarabica nelle terre del bacino del Duero, che il re Alfonso I aveva in gran parte spopolato, trasformandole in una terra di nessuno tra sé e gli invasori alla metà del V secolo.
I suoi successori riconquistatori si trovarono quindi ad affrontare il problema opposto, quello di ripopolare queste terre. Durante il decennio in cui morirono i martiri di Cordova, il re Ordoño I ricostruì Tuy e Astorga nell'854, fortificò Amaya e schiacciò un esercito arabo ad Albelda, aprendo così la via verso l'alto Ebro attraverso La Rioja. E soprattutto, per citare la Cronaca di Alfonso III, "riempì le città ricostruite, a partire da Leôn, la futura capitale", a partire dall'856, "con una popolazione che proveniva in parte dai suoi territori e in parte dalla Spagna": in altre parole, con emigranti asturiani e galiziani, e con immigrati mozarabi.
Alfonso III il Grande estese questa politica di ripopolamento alle terre che aveva riconquistato con la forza, tra i Pirenei cantabrici e il Duero. Sulle rive di questo fiume costruì le città fortificate di Simancas, Toro e Zamora, ripopolate nell'893 con i mozarabi toledani. Questa forte immigrazione si può riconoscere nei patrocini arabi delle carte e nei toponimi più antichi di León.
 
La categoria dei monaci immigrati merita un'attenzione particolare. Fu all'interno delle loro comunità che vennero creati i capolavori dell'arte mozarabica, dall'architettura alle miniature, soprattutto in terra leonese.
È opportuno ricordare alcuni fatti e date. Nell'862, tre monaci mozarabici, l'abate Offilon, il sacerdote Vincenzo e la monaca Maria, furono insediati dal re Ordoño nell'antico monastero di Samos, in Galizia, con il compito di ricostruirlo e di ristabilirvi la vita religiosa. Nel 904, Alfonso III fece lo stesso con l'abate Alfonso e i suoi monaci, provenienti dal monastero di San Cristoforo fuori le mura di Cordova, nella villa di Zaccaria, situata sull'antica strada romana che da Pamplona portava a León e che allora stava diventando il cammino di Santiago. Non lontano, la chiesa dei Santi Facondo e Primitivo, rovinata da una scorreria dei Mori nell'883, sarebbe diventata il famoso monastero di Sahagun.
Non senza tragedie, che dimostrano quanto l'esodo verso le terre cristiane non fosse un'opzione facile per i monaci e i laici mozarabici, ma una vita pericolosa sulla frontiera, paragonabile a quella dei kibbutz di frontiera di Israele. A più riprese, e in particolare alla fine del X secolo, durante le devastanti spedizioni di Almanzor, questa sede religiosa, troppo ben situata su una comoda via di invasione, fu devastata e la sua comunità massacrata. Nella prima metà del X secolo furono fondati (o rifondati) i monasteri di Mazote, Penalba e Wamba, Tabara alla fine del IX secolo e Castaneda, alle porte meridionali della Galizia, poco dopo la metà del X secolo.
Ovunque in questi insediamenti, documenti e opere d'arte indicano un'immigrazione mozarabica, di solito fin dall'inizio, e talvolta, come abbiamo visto, specificamente cordovana. È in queste isole di Mozarabia, conservate nel cuore dei regni cristiani precariamente liberati, che fiorì la maggior parte dell'arte che chiamiamo mozarabica. I mozarabi di Toledo dopo la riconquista cristiana del 1085 e tutti coloro che conservarono la loro personalità culturale e la loro fede nelle comunità mozarabiche del sud quando la riconquista le raggiunse mostrarono una fedeltà paragonabile al loro modo di vivere come cristiani e di costruire, scolpire e dipingere per Dio....Cosi, La semplice descrizione della loro storia fornisce un quadro più chiaro di come sia nato il contenuto di ciò che intendiamo con il sostantivo o l'aggettivo "mozarabico".

Tre situazioni distinte hanno portato i mozarabi a percepire la propria originalità e a farla percepire nei tipi di società in cui sono sopravvissuti successivamente come mozarabi.
In primo luogo, in patria, di fronte all'Islam, nella Spagna, soprattutto quella meridionale e centrale, occupata e sempre più profondamente plasmata dai suoi conquistatori arabi.
Poi, nella loro situazione di "sfollati" all'interno o alla "frontiera" dei regni della reconquista del nord, dove si fusero solo lentamente e progressivamente nel crogiolo leonese e castigliano, ma anche navarrese, aragonese e catalano: un processo accelerato, se non forzato, dalla romanizzazione del monachesimo e della liturgia, avvenuta sotto l'influenza dei cluniacensi a partire dalla fine del XII secolo.
Infine, un posto speciale spetta agli irriducibili, coloro che cercarono costantemente di riconquistare l'indipendenza politica fin dai primi decenni dell'invasione e che spesso ci riuscirono tra il 711 e il 1085. Sono i mozarabi della Urbs regia, coloro che strapparono ai principi della reconquista la conferma dei loro privilegi religiosi e che ancora oggi sono orgogliosi di poter ricevere i sacramenti secondo l'antico rito ispanico e di essere così riconosciuti come mozarabi: un nome che furono i primi, almeno allo stato della nostra documentazione, a portare nei documenti ufficiali.
A loro spettò il compito di riaccendere la fiamma della Mozarabia in Spagna, organizzando il primo Congresso Internazionale di Studi Mozarabici a Toledo nell'ottobre 1975.
 



[1] Nella Spagna medievale, le immunità locali, concesse dai sovrani a città, feudi ed enti ecclesiastici, e i capitoli con i quali, valendosi di queste immunità, tali enti davano forza di legge, con il consenso del sovrano, alle loro consuetudini. (Treccani)

 

[2] Reinos de Taifas: gli Stati musulmani nella penisola iberica (Treccani).

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