26. L’Anatolia centrale e Trebisonda
L’Anatolia centrale e Trebisonda
Un tempo chi si addentrava in Anatolia, uscendo dall’interminabile periferia di Istanbul per affrontare paesaggi semi-stepposi e foreste, credeva di entrare in un altro paese. Era questa la vera Turchia repubblicana che era risorta in decisa contrapposizione alla vecchia capitale prima bizantina e poi ottomana con la dignità di un paese giovane e pieno di volontà di cambiare rispetto al passato. Si entrava nella vera Turchia repubblicana, dove l’odore del gasolio e dei fiori permeava l’aria e la gente vestiva con una sobrietà che contraddiceva bruscamente le millenarie mollezze della vecchia città sul Bosforo. La differenza netta era palpabile: da un lato i fasti di un impero che aveva finito di estinguersi dopo la Prima Guerra Mondiale, dall’altra una Repubblica che si avviava a costruire una nuova civiltà adottando presto l’alfabeto latino, il cappello a falde larghe al posto del fez e soprattutto una straordinaria libertà per le donne fino ad allora totalmente impensabile. Arrivare ad Ankara mi piaceva in maniera particolare: giravo per i musei della città a cominciare da quello dedicato alle civiltà anatoliche nel quale si vedeva con grande rigore un’elegante esposizione di come si era passati dal passato remoto alla modernità: Il museo serviva a capire anche come la Repubblica turca non solo non rinnegasse il passato, ma lo valorizzasse come un patrimonio fondativo del nuovo Stato. C’erano anche altri musei dedicati alle tradizioni popolari, all’arte contemporanea, la Società di Storia Turca, la facoltà di lingue dell’Università: tutti edifici costruiti da architetti turchi e loro colleghi europei che contribuirono a quello sforzo, unendo modernismo e un tocco di turcità assolutamente originale.
Oggi quel mondo si è diluito in una nuova cultura ibrida. I musei sono quasi oggetti di antiquariato e il nuovo nazionalismo islamizzante esasperato ha trasformato l’universo kemalista in un mondo globalizzato da un lato, e arcaico al contempo. Neo-ottomano si dice spesso, per definire chi governa la repubblica per indicare la fine di un’epoca e il ritorno a quella che è purtroppo considerata una sana forma di tradizionalismo.
Eppure la visita di Ankara e del Museo delle civiltà anatoliche è ancora un modo intelligente di addentrarsi in Anatolia. Si vedrà come sono disseminati gli insediamenti umani sul territorio fin dal X millennio a.C., come questa terra poi abbia ospitato gli Ittiiti, gli Urartei, gli Achemenidi, i Sasanidi, i Greci, i Romani, l’Impero bizantino, gli Arabi, i Turchi selgiuchidi, i Mongoli, i cosiddetti beilicati anatolici e gli Ottomani. Si vedranno gli elementi indubbi di continuità e le cesure profonde e sebbene non manchino i propugnatori di idee nazionaliste, quel Museo invita anche a restare coi piedi per terra: la storia della Turchia è per le persone colte, un bene prezioso e variegatissimo da maneggiare con estrema cura.
Ci sono città in Anatolia dove si avverte in pieno la complessità della storia: Un esempio è indubbiamente Amasya, l’antica Amasea che diede i natali a Strabone. Capitale in età romana del Ponto oggi ci appare come un interessante centro dell’Anatolia ottomana: situata a nord-est di Ankara è separata dal Mar Nero da alcune montagne che la mettevano a riparo dagli attacchi che potevano arrivare dal Nord. Quando il sultano ottomano Beyazid I, celebrato da tante operette settecentesche italiane, fu sconfitto da Tamerlano nel 1402, lì si ritirò il figlio Mehmed I che avrebbe poi gettato le basi di un risorgimento che portò gli eserciti sultaniali prima a riconquistare Bursa e in seguito l’intero territorio ottomano sui due continenti, quello Europeo rappresentato dai Balcani e quello asiatico che si estendeva pressoché sull’intera Anatolia. Al di là delle bellezze greco-romane che Amasya incarna a pieno, ben rappresentate dal suo locale museo archeologico, questa città è un tipico centro dell’Anatolia ottomana. Le sue case spesso caratterizzate dai Bowindow sporgenti ne sono un vivido esempio. Sontuose sono le moschee e le madrase di quel periodo: è una città elegante dove svolsero funzioni di governatori della Rumelia (Rum eli, ovvero terra dei Rum “Roma”, qui intesa come Anatolia), diversi prìncipi poi divenuti sultani. È il caso di Mehmed II (il Conquistatore che prese Istanbul nel 1453) e di Murad III che governò l’impero all’apice del suo splendore alla fine del XVI secolo. Solimano il magnifico amava trascorrervi dei periodi di requie tra una campagna militare e l’altra. Se resta poco del passato pre-ottomano, non mancano le sorprese: come una moschea selgiuchide, la Burmalı Minare Mescidi (1237) caratterizzata da un minareto spiraliforme che testimonia a pieno dell’eclettismo architettonico di questa dinastia.
E questa moschea ci permette di addentrarci nel cuore di una civiltà che ha svolto un ruolo molto significativo nella storia della Turchia islamica. Meno conosciuti degli Ottomani, i Selgiuchidi hanno svolto un ruolo fondamentale nella diffusione dell’Islam in Asia Minore. I teoremi romantici di chi come Speros Vryonis, vedeva l’invasione di questi turchi di origine centroasiatica come la fine della civiltà, sono stati molto ridimensionati dagli studiosi. In realtà questi turcomanni che venivano da Oriente avevano già una consolidata civiltà: costruirono nel corso dell’XI secolo uno Stato che si estendeva dal Khorasan (l’Iran Orientale) sino ad Antiochia. Nel 1071 il loro sultano Alp Arslan sconfisse a Manzikert in Anatolia orientale l’esercito bizantino guidato da Romano IV Diogene, un generale divenuto imperatore bizantino in un momento profondo di crisi. Con sé i Selgiuchidi portarono l’Islam in un territorio dominato da popolazioni greche, armene e georgiane. Il nuovo Stato si mostrò in definitiva tollerante nei confronti dei popoli sottomessi con un atteggiamento pragmatico che caratterizza un po’ tutte le potenze turche che dominarono il mondo islamico orientale sino agli inizi del XX secolo. Presto i Selgiuchidi di Rum (ovvero d’Anatolia) si resero indipendenti dai cosiddetti Grandi Selgiuchidi che governavano in Iran e avevano dato l’abbrivio a questa evoluzione imperiale.
Da un lato si fecero portatori della civiltà arabo-persiana, con le sue raffinate letterature (ancora il turco non si scriveva) e dall’altro le fusero in maniera sapiente con le culture locali. Ne venne fuori un mondo raffinatissimo dove i sovrani avevano nomi tratti dal Libro dei Re di Firdusi, ma nel quali molti abitanti della regione preferirono aderire all’Islam, piuttosto che sottostare al pagamento delle tasse destinate alla cosiddetta ”Gente del Libro”, ovvero i cristiani e gli ebrei. Chi si trovasse a leggere il più tardo Libro di Dede Korkut del XIV secolo, tradotto in italiano magistralmente dal grande turcologo Ettore Rossi, vedrà come sopravviveva la cultura locale in quella nuova portata delle genti turcomanne: vi ritroviamo la figura di Polifemo sotto mentite spoglie e i sovrani bizantini di Trebisonda con cui i Turcomanni del “Montone Bianco” amavano creare unioni matrimoniali per fare acquisire ai propri figli del sangue greco e garantire un buon pedigree per via matrilineare ai loro figli come era d’uso tra le genti turche.
I Selgiuchidi promossero un’arte raffinatissima: chiunque abbia visitato Isfahan conosce lo splendore del padiglione cupolato di Nizam al-Mulk, il più grande uomo politico del Medioevo islamico orientale. Da quel gusto e talento i Selgiuchidi di Anatolia presero molte cose a cominciare dalle cupole ardite che disponevano sui loro edifici, fino all’uso di decorare gli edifici con intrecci raffinatissimi di mattoni, stucchi pregiati e meravigliose maioliche turchesi, uno dei colori più ambiti dalle popolazioni turche che si rifacevano al culto ancestrale del cielo. Era il blu,“Gök” che aveva caratterizzato la nomenclatura cromatica dei primi imperi turchi nel VI secolo nell’Asia centrale profonda.
Gli edifici Selgiuchidi hanno splendidi portali, spesso affiancati da minareti che ricordano in pieno gli edifici persiani, ma si tratta di moschee o madrase che non hanno più degli ampi cortili e sono piuttosto coperte interamente rinunciando all’ipostilia, ovvero all’uso di fare delle foreste di colonne al loro interno. Sono tutte di pietra a differenza degli edifici orientali in cui è il laterizio ad avere predominanza. È però soprattutto nella decorazione architettonica che questi edifici mostrano una particolare originalità.
Se prendiamo l’esempio del complesso della Grande Moschea selgiuchide di Divriği in Anatolia centrale vi si noterà un tale eclettismo da rimanere sopraffatti: l’edificio potrebbe rivaleggiare a pieno titolo con degli edifici romanici contemporanei, ma mentre in quel caso il portale è decorato con figure umane, a Divriği, troviamo solo motivi geometrici e vegetomorfi di una varietà sorprendente che ha fatto meritare a questo specifico stile l’infelice definizione di barocca. Prodotto di un casato locale indipendente ma vassallo dei selgiuchidi, quello dei Mengujekidi (XII-XIII sec.), il complesso monumentale di Divriği costituisce uno dei punti più alti della civiltà selgiuchide, dove all’eclettismo decorativo si unisce la funzione di un edificio polifunzionale ad uso degli abitanti della città: il complesso comprende oltre alla Grande Moschea, un ospedale e altre funzioni pubbliche
Il viaggio in Anatolia centro-orientale riserva molte altre sorprese, in diverse altre città dove quella civiltà produsse edifici di straordinaria portata. Così a Tokat, dove la Gök Medrese (Moschea Blu) testimonia di un uso sapiente della bicromia (con pietra rossa alternata alla bianca) nel suo portale decorato con rilievi incisi nella pietra in una trama geometrica di estrema complessità. Moschea Blu è anche quella di Sivas (l’antica Sebaste) anch’essa caratterizzata da un portale monumentale decorato anch’esso con un originalissimo disegno geomatrico. Erzurum antica città di frontiera col mondo persiano, era il centro da qui si doveva passare e si passa tuttora per andare in Iran. Sembra una specie di città repertorio per la varietà delle forme architettoniche e decorative che è possibile incontrarvi: è il caso delle sue moschee, mausolei e madrase di vario tipo con un repertorio incredibile degli elementi stilistici selgiuchidi. I Mausolei in particolare (le Üç Kumbet “3 cupole”) rappresentano un caso particolarmente interessante che consente di avere un’idea dello sviluppo dell’architettura in terra anatolica.
Ma qual è dunque la specificità selgiuchide? Molti studiosi si sono arrovellati nel tentare di definirli. Alcuni hanno visto nella loro arte una trasposizione di numerosi elementi centroasiatici che sarebbero entrati nell’arte islamica attraverso una mediazione persiana, per esempio l’ornamentazione a palmette e girali, e forse arabo per l’uso di serie geometriche che hanno fatto discutere per le sequenze numeriche che celavano. Spesso si è fatto riferimento alle serie di Fibonacci che derivavano dagli studi matematici elaborati in oriente. Altri hanno visto nell’animalistica fantastica delle steppe un riferimento a motivi animali, come le aquile bicipiti che ritroviamo un po’ ovunque a simboleggiare il potere selgiuchide. Da esse deriveranno molte aquile bicipiti in Europa dove acquisiranno un valore araldico già forse in nuce in Asia Minore. Molti hanno cercato di stabilire dei canoni: se devo esprimere un parere personale definirei l’arte selgiuchide un fenomeno di adattamento e conversione di un numero pressoché infinito di motivi. Così fu la loro civiltà che seppe trarre apprendimenti, senza remore né censure sofistiche, da tutte le genti che incontrò e dominò con sapienza.
I vicini Comneni, stanziali nel Ponto anch’essi avevano fondato a Trebisonda un loro impero sorto dopo che la sciagurata IV Crociata aveva devastato Costantinopoli con l’unico intento di depredarla dei suoi monumenti e delle sue ricchezze. Quella che oggi si chiama Trabzon divenne per tanto una capitale Orientale dell’Impero, incastonata tra regni turcomanni di varia natura con i quali stabilì accordi che furono utili a entrambe le parti. A Trebisonda dove riprodussero i fasti dei loro omonimi regnanti su Costantinopoli, i
misero in piedi scriptoria raffinatissimi e costruirono edifici religiosi di grande significato, come la Basilica di Santa Sofia costruita a metà del XIII secolo.
A tutto questo si dovrà aggiungere il ruolo che questa vasta regione ebbe nella costruzione della Repubblica Turca: non è un caso che sia stata scelta proprio la culla della civiltà Anatoliche per far risorgere il paese dalla decadenza prodotta dalla fine dell’impero ottomano. Nel 1919 si tenne quello che poi passò alla storia come il Congresso di Sivas. Qui Mustafa Kemal Ataturk gettò le basi della riscossa contro i Greci che avevano invaso l’Anatolia col sogno di riprendere una terra ormai persa da secoli. Da Amasya Atatürk aveva diffuso una circolare che era la conseguenza di quanto stabilito nel congresso di Erzurum tenutosi nell’agosto dello stesso anno. Questi eventi portarono a un nuovo corso della storia. Più tardi proprio Atatürk curò con particolare cura la fondazione della Repubblica e fondò le nuove università e i centri principali della cultura turca. Pur fortemente nazionalista questo moto di rivolta rovesciava definitivamente un’occidentalizzazione mal digerita, basandosi sull’antichità e il passato selgiuchide vi ebbe un ruolo di primo piano. I Turchi si distinguevano dagli altri ritagliandosi un nuovo profilo identitario più consono alla loro natura indipendente.
Tutto questo si può vedere e sentire nell’aria nelle regioni del Nord-est e nel centro dell’Anatolia, dove la presenza di un’antichità pervasiva si associa a quella di uno Stato che fu e malgrado tutto continua ad essere il più moderno tra gli stati musulmani. Merita decisamente di essere visto con l’occhio proteso al senso della continuità millenaria di un patrimonio universale col quale abbiamo molto da spartire.
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