6.Gengis Khan CULTURE E CIVILTÀ DELL’ASIA CENTRALE di Mario Bussagli
Bussagli Mario, CULTURE E CIVILTÀ DELL’ASIA CENTRALE, ERI, Torino, 1970
Si tratta di un libro introvabile. E’ un peccato che nessuno l’abbia ripubblicato e che la casa editrice che ne ha curato le stampe nel 1970 si disinteressi in modo così totale del proprio catalogo.
E’ un peccato perché il
libro di Bussagli rappresenta una delle più felici e godibili sintesi della
storia dell’Asia centrale. I cui conflitti, imperi, disastri e fortune
costituiscono un intrigo tanto importante quanto complesso per la comprensione
della storia dell’Asia e del Vicino Oriente. Ne pubblichiamo alcune pagine che
ci sono parse suggestive, quelle dedicate alla figura di Gengis Khan.
« Noi abbiamo deciso di proclamare te khan dei Mongoli. In ogni combattimento saremo in prima fila e se prenderemo prede pregiate te le daremo ».
Quale fosse il prestigio di Gengis Khan lo dimostrano le frasi pronunciate dai grandi elettori mongoli nel comunicargli che egli era il loro prescelto. La Storia segreta le registra con evidente compiacimento ed è chiarissimo che esse attestano una devozione senza limiti, risultando, per di più, estranee ad ogni formula consuetudinaria. Dicono i principi elettori: « Noi abbiamo deciso di proclamare te khan dei Mongoli. In ogni combattimento saremo in prima fila e se prenderemo prede pregiate te le daremo ». Ognuno di loro, se non avesse rinunciato alla propria candidatura in favore di Gengis Khan, sarebbe stato egli stesso eleggibile. Si compiva così l’opera di unificazione delle tribù turco-mongole della steppa e subito molte tribù e gruppi della stessa stirpe stanziati altrove riconobbero la sovranità di Gengis Khan: dai Turchi Uighur di Turfan, agli Oirat, i Mongoli rimasti nella fascia settentrionale delle foreste, dai nestoriani Ongut, ai Kirghisi, ad altri. La forza militare di queste masse umane era davvero enorme e Gengis Khan poté facilmente passare all’attacco di popolazioni sedentarizzate come i Tangut, stanziati nel Kansu e nel Ninghsia, di stirpe simile ai Tibetani almeno per quanto riguardava la classe dirigente, organizzati con istituzioni di tipo cinese e stanziati in un territorio che non era, geograficamente, troppo dissimile dalla steppa dei nomadi. Il sovrano Tangut si riconobbe vassallo e tributario nel 1209.
Poi fu la volta dei Jurchen, battuti per un’improvvisa defezione che aprì una breccia nelle fortificazioni di frontiera, troppo massicce e profonde per poter essere intaccate dalla cavalleria mongola che, approfittando dell’inaspettata occasione, calò in Manciuria conquistandone il centro strategicamente (e storicamente) più importante, vale a dire Liao-yang. Nell’anno successivo, 1213, Gengis Khan giunse sotto le grandi mura di Pechino, dopo aver superato la Grande Muraglia. Se non poté conquistare la capitale cinese, del resto prontamente trasferita a K’aifeng, ricavò dall’impresa una fortissima indennità di guerra. Pechino infatti fu presa e saccheggiata due anni dopo, nel 1215.
La presa di Pechino fu accompagnata da massacri ed incendi di una crudeltà senza pari. Comincia ora quella terribile tattica che i Mongoli chiameranno « uccisione della terra » perché tende a riportare le terre coltivate allo stato di deserto. È qualcosa di molto simile alla « terra bruciata » degli strateghi moderni, ma - se è possibile - è assai più radicale e perfezionata anche perché è suggerita da uno spirito completamente diverso. I Mongoli, che trovano estrema difficoltà ad avere ragione delle città fortificate e dei centri protetti da grosse fortezze, tendono a trasformare in deserto e in pascolo brado ogni territorio del quale riescano ad impadronirsi
C’è una totale incomprensione, da parte loro, per tutto ciò che è creato dalle civiltà sedentarie, dal lavoro agricolo, dai commerci. Per loro è assai più facile governare ed organizzare un’area desertica o stepposa che affrontare i complessi problemi delle comunità sedentarie. È così che l’avanzata mongola, ormai dilagante in tutte le direzioni (si attesteranno sul Pacifico lungo un fronte ampio inizialmente più di millecinquecento chilometri), restituì al deserto e trasformò in sabbia - inaridendole - terre fertilissime che il lavoro umano aveva conquistato in più di mille anni di dura lotta contro l’ostilità della natura. Del resto, le stragi, i massacri, le rovine infinite che questa avventura costa all’umanità - con un bilancio di almeno dieci milioni di morti (anche a tener conto delle possibili esagerazioni delle fonti, di solito piuttosto precise e bene informate), ma senza includere nel numero le perdite mongole- farebbero pensare ad un episodio storico fondamentalmente negativo, almeno a prima vista. Invece l’avventura mongola determinerà notevoli progressi in vari settori e si risolverà in una svolta estremamente favorevole al progresso umano anche perché coincide con la cosiddetta « rivoluzione commerciale » attuatasi in Europa.
In ogni modo le imprese mongole erano rese possibili non solo dalla perfezione della macchina militare, ma dalla stessa struttura statale dell’impero governato dalla yassak, la legge che fungeva da codice civile, militare, penale. Dirà il nostro Giovanni da Pian del Carpine, messo pontificio alla corte mongola:
Li riveriscono infinitamente, non dicono mai una menzogna. Fra loro non ci sono liti, risse, assassini ma solo furti di poco valore ». Se si pensa all’anarchia e al caos dei tempi anteriori, non si può negare l’effetto profondo e vastissimo dell’opera di Gengis Khan, facilitata dallo spirito dei suoi popoli desiderosi di nuova potenza. Lo stesso inquadramento delle forze - che rispecchiava la struttura sociale imposta ai popoli nomadi da Gengis Khan- presupponeva una disciplina durissima e infrangibile, ripartendo le funzioni (e le responsabilità) secondo i meriti.
Alla vecchia aristocrazia di sangue e di
discendenza (l’aristocrazia delle steppe) era stata affiancata un’aristocrazia
« del valore militare » che aveva il compito di inquadrare, ai suoi ordini,
tutti gli uomini liberi, fossero essi guerrieri o funzionari.
La cancelleria della corte gengiskhanide era interamente nelle mani dei Turchi
Uighur in riconoscimento della loro maggiore civiltà. Ad uno di costoro,
T’at’aT’onga, che forse era cristiano, si attribuisce la famosa e sintomatica
frase, rivolta a Gengis Khan: « Si può conquistare il mondo a cavallo, ma
bisogna scenderne per governarlo.» A quanto sembra Gengis Khan seppe far tesoro
dell’arguta esperienza del suo consigliere, guidandone, col proprio genio, la
cultura, l’acume politico, le conoscenze storiche. Tattica e strategia erano
invece affidate all’intuito e alla durissima esperienza del capo e dei suoi
luogotenenti. Senza pensare - come qualcuno immaginosamente ha fatto- ad un
concilio di guerra tenuto da superuomini, l’arte della guerra, per i Mongoli,
era solo il perfezionamento della tattica e della strategia usate da tutti i
popoli nomadi (dagli Hsiungnu ai Turchi ed ai Mongoli stessi), trasformate
dalla stessa disciplina delle truppe. Un processo lunghissimo di evoluzione,
segnato da alcune importantissime innovazioni, aveva reso quasi istintiva la
maniera di combattere dei nomadi, i quali restavano in certo modo condizionati,
anche in questo campo, dal loro ambiente, dal loro sistema di vita, dalla
necessità di essere cavalieri insuperabili e arcieri infallibili.
« Il mongolo, scriveva Altunian, è l’arciere a cavallo - nato sul suo cavallo,
arciere fin dall’infanzia- la cui freccia infallibile può abbattere un uomo a
duecento, a trecento, perfino a quattrocento metri di distanza. Alla sua
inafferrabile mobilità aggiunge questa superiorità tattica, unica a
quell’epoca. Sicuri di questo vantaggio, le sue avanguardie si frazionano in
ondate successive che svaniscono dopo ogni lancio di frecce e solo quando il
nemico, attirato lontano dalle sue basi, è sufficientemente demoralizzato da questi
tiri a distanza, la cavalleria pesante dei Mongoli, posta al centro del loro
schieramento, carica con le spade travolgendo e falciando ogni ostacolo.
In tutte queste fasi i Mongoli sfruttano in maniera eccellente il terrore che
ispirano, il loro aspetto, i loro costumi, perfino il loro insopportabile
fetore. Essi appaiono all’improvviso, si schierano, chiudono - se possibile- il
cerchio dell’orizzonte, si avvicinano al piccolo trotto, in un silenzio
impressionante, manovrando senza gridi secondo i segnali dei porta-stendardo.
Poi, all’improvviso, al momento della carica, tutta questa massa si getta
avanti, a valanga, con urli infernali ». Sono, come si vede, le astuzie
ataviche dei cacciatori che vogliono far impazzire di paura la bestia per
toglierle ogni capacità di difesa e di offesa. Ce lo confermano, per un’epoca
leggermente più tarda, le parole di Guglielmo di Rubruk, che, protetto da una
lettera di raccomandazione di Luigi IX di Francia (San Luigi), giunge con
Bartolomeo da Cremona ed un interprete arabo, alla corte del khan Mongka nel
1254. Egli afferma: « Quando [i Mongoli] vogliono andare a caccia, si
riuniscono in gran numero nei dintorni dei luoghi ove sanno esservi selvaggina,
li circondano e si avvicinano a poco a poco chiudendo le bestie come dentro una
rete per abbatterle poi a colpi di frecce ».
Furono questi i mezzi e gli strumenti di cui disponeva Gengis Khan, in gran
parte creati o, almeno, potenziati da lui stesso col favore dei suoi popoli.
Quanto a lui, benché venga considerato un flagello dell’umanità e goda in
Europa ed in Asia di una fama sinistra quale nessuno dei suoi predecessori ebbe
a conoscere, dobbiamo confessare che non disponiamo di un metro adatto a
misurarne la grandezza. Nessuno può negarne né la genialità né il fascino
profondo che esercitava sui sudditi, ma le valutazioni degli studiosi moderni
sono quanto mai discordanti. Lo sforzo, spesso assurdo, ma reso necessario
dalla realtà storica attuale, di « moralizzare » la storia stessa, allo scopo
di conferire agli uomini di oggi una più precisa coscienza delle loro capacità
distruttive, di eliminare la violenza, di ridurre l’aggressività per timore di
una distruzione totale dell’umanità intera, non è certo favorevole ad una
valutazione obiettiva di Gengis Khan, distruttore spietato, conquistatore
mostruoso, sintesi di tutti i risentimenti che i nomadi hanno sempre covato nei
riguardi dei sedentari. Ed è per questo che molti studiosi, oggi, si rifiutano
di riconoscerne la grandezza, tragica e sinistra finché si vuole, ma indiscutibile.
D’altra parte egli è la dimostrazione vivente di quanto possa una personalità
d’eccezione quando viene a inserirsi in un contesto di forze sociali, politiche
ed economiche adatto a subirne il fascino. Le masse mongole che prima di lui
erano un’entità di scarsa importanza divengono ora signore del mondo e
conservano questa signoria per un tempo sufficientemente lungo perché Europa ed
Asia si riconoscano e si uniscano in una nuova visione, in una reciproca
scoperta che, almeno per gli occidentali, non sarà mai più limitata ai confini
della propria civiltà. Quanto al tentativo di inserire Gengis Khan nel suo
mondo e di trarre, da questa valutazione « storicizzata », un giudizio più
preciso ed obiettivo, non si può negare che il tentativo stesso è arduo e
rischioso.
Per noi è quasi impossibile avvicinarci alla mentalità dei nomadi.
In ogni modo, se vogliamo tentare, dovremo ammettere che egli appare - secondo
questa prospettiva- come un personaggio assolutamente inaspettato: intelligente
ed equilibrato, fedele alle sue amicizie e perfino generoso. La sua crudeltà -
tremenda nei riguardi dei sedentari, minore per i nomadi- era un prodotto
dell’ambiente durissimo in cui era vissuto. Come uomo della steppa era incapace
di attribuire un vero valore al lavoro ed all’organizzazione dei sedentari, dei
quali, però, apprezzava la saggezza e la sapienza. Analogamente era incapace di
concepire la vita se non come lotta continua e sanguinosa. In lui si
riassumevano e si condensavano le esperienze di oltre un millennio di vita
nomade in Asia centrale. E se sono esatte le parole che Rashid ud-Din gli
attribuisce, Gengis Khan ebbe la piena coscienza di aver procurato ai suoi
discendenti e a quelli del suo popolo le ricchezze e gli agi dei sedentari, ma
solo per la sua forza di nomade, di combattente spietato e senza speranza di
gratitudine da parte di coloro che avrebbero goduto i frutti delle sue
lotte.
Naturalmente nessuno dimentica Gengis Khan: né i suoi immediati discendenti, né
quelli più lontani, né i suoi tardissimi pronipoti. L’ombra gigantesca
dell’antico condottiero rappresentava una somma tale di valori politici e
guerrieri, da suscitare un fascino profondo per secoli interi dopo la sua
morte. L’immensità dell’impero da lui creato (si diceva che un buon cavaliere
poteva cavalcare per un anno intero da est verso ovest senza toccarne i
confini) doveva riflettersi inevitabilmente sul giudizio dato dai posteri al
suo creatore. Nello stesso tempo la yassak, la sua legge, aveva eliminato per
sempre - all’interno del mondo nomade- le terribili prove e gli orrori dei
primi sovrani hsiungnu, mentre, come riferisce Abu’l Gazi, « sotto il regno di
Gengis Khan, ogni paese fra Iran e Turan godeva di una tale tranquillità che
una vergine nuda con un piatto d’oro sulla testa avrebbe potuto andare da
levante a ponente senza subire da nessuno la minima violenza». La yassak aveva
dunque creato una pax mongolica, terribile e spesso più vicina alla desolazione
ed al deserto che ad un ordine stabilito in conseguenza dei metodi con i quali
veniva imposta. Ma era destinata ad umanizzarsi sotto i suoi successori così da
rendere possibile l’attività dei grandi viaggiatori del XIII e XIV secolo. René
Grousset ne concludeva che il sovrano mongolo fu « una specie di Alessandro
barbarico che, anch’egli, aprì alla civiltà nuove vie ». Altri però si
oppongono ad una valutazione del genere e desiderano escludere qualsiasi alone
romantico ai duri fatti della vita di Gengis Khan. E forse il lettore potrà
farsi da sé un’idea di ciò che significasse l’urto con i Mongoli seguendo passo
per passo la vita stessa e le campagne di Gengis Khan. Nel 1218 tutta la
Kashgaria, il Kazakhistan ed il bacino dell’Ili erano passati nelle mani di
Gengis Khan. Confinava ora col grande stato del Khwarezm, il cui shah,
Muhammad, estendeva i propri domini su gran parte dell’Iran.
Una grande carovana mongola che attraversava il territorio khwarezmiano sia per
scopi commerciali che diplomatici, fu attaccata e distrutta da uno dei suoi
governatori, il che portò all’immediata reazione dei Mongoli. Nell’estate del
1219, con forze inferiori di almeno la metà rispetto a quelle dello shah del
Khwarezm, passarono il confine evitando di impigliarsi nelle maglie della rete
difensiva predisposta dallo shah Muhammad. Gengis Khan si spinse subito fin
sotto Bukhara che gli aprì le porte nel febbraio del 1220. Un massacro parziale
eliminò la guarnigione e tutta quella parte della popolazione che sembrava
ostile ai Mongoli. Sorte peggiore toccò agli abitanti di Samarcanda, i quali,
per non aver opposta nessuna resistenza, vennero puniti come traditori del loro
sovrano. Balkh ed Herat vennero saccheggiate senza pietà. Gli artigiani
superstiti vennero invece deportati in Mongolia perché lavorassero a servizio
dei nuovi padroni.
A Nishapur (nel 1221), per essere certi che nessuno degli abitanti scampasse,
vennero alzate tre piramidi di teste: una per gli uomini, una per le donne, una
per i bambini. Lo stesso accadde a Merv e a Bamivan. L’erede al trono del
Khwarezm, Jalal ud-Din Mangubarm, riuscì a battere i Mongoli, ma l’intervento
diretto di Gengis Khan lo costrinse a fuggire e il suo esercito fu distrutto
sulle rive dell’Indo. Il principe, con otto superstiti, riuscì a raggiungere il
territorio indiano.
È il momento del massimo sforzo espansionistico dell’impero mongolo ed è il
momento in cui comincia, per Gengis Khan, quella ricerca dell’immortalità che
lo porta ad incontrare maghi e stregoni e - fra questi- il famoso monaco
taoista Ch’iu Ch’angch’un che ha lasciato una relazione dei suoi incontri. È
molto probabile che Gengis Khan non credesse affatto alla possibilità di
raggiungere un’immortalità fisica, ma - a giudicare da varie testimonianze-
sembra che la speranza di risolvere il problema della propria sopravvivenza
individuale fosse diventato, per lui, una vera ossessione: il che rivela un
aspetto curioso e inaspettato del suo carattere. In certo senso è un aspetto
umano che lo avvicina molto a noi, a meno che l’uomo che aveva vinto il mondo
non pensasse addirittura di poter sconfiggere anche la morte. In ogni modo è
nel 1221 che una forte aliquota delle forze mongole sconfigge i Georgiani a
Tiflis dilagando nel Daghestan e di qui nelle steppe della Russia meridionale.
La resistenza dei kniatz, ossia dei principi ucraini di Kiev, di Halich, di
Cernigov e di Smolensk, non valse a nulla. Tuttavia la spedizione del 1222,
culminata con la battaglia del 31 maggio sulle rive della Kalka, non era altro
che una ricognizione. Distrutti i fondachi genovesi di Soldaia in Crimea, Jebe
e Subotai ritornarono ad est raggiungendo il loro capo nelle steppe a sud
dell’Aral. L’anno dopo Gengis Khan si ferì gravemente cadendo da cavallo
durante una caccia all’orso nella regione di Tashkent e il suo vigore fisico
cominciò a declinare. Morì il 18 agosto 1227 durante l’ultima fase dell’ultima
campagna - anch’essa vittoriosa- da lui personalmente condotta contro i Tangut
che non lo avevano aiutato all’epoca della campagna contro il Khwarezm Shah. Il
suo corpo, scortato da mille cavalieri dal volto velato, parati a lutto,
impegnati nel compito orrendo di non lasciare sul loro passaggio nessuna
traccia di vita umana od animale, fu portato sul monte Burkan Kaldun (il
Kentei) là dove egli aveva ricevuto dall’Altissimo e Profondo Cielo Azzurro la
prima ispirazione delle sue imprese. La sua avventura terrena era finita, ma
anche da morto restava ugualmente il pernio e l’animatore del suo sconfinato
impero. La sua gente, prima di muoversi per altre imprese, volle ancora
onorarlo, alla tremenda maniera degli Sciti: per questo Ogodai, suo figlio e
successore nel dominio della parte centrale dell’impero, fece sacrificare nel
1229 le quaranta donne più belle di tutti i territori dominati dai Mongoli con
i gioielli più preziosi e centinaia di splendidi cavalli. Anche da morto Gengis
Khan richiedeva lutti, stragi, sangue.
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