3. Storie di Alessandro Magno, Curzio Rufo
Le porte di ferro
Della difficoltà incontrata da Alessandro
nell’attraversamento del fiume Oxus ci parla Arriano nelle Anabasi di
Alessandro , III, 29, 2-4:
Di seguito riportiamo la descrizione della conquista di una di queste rocche sogdiane, così come riportata da Curzio Rufo (libro VII, 11, 1-29).
Alessandro, mandati trecento giovani macedoni a occupare la rupe tenuta dal sogdiano Arimaze, finge di accettare la resa, ma poi lo fa crocifiggere con i propri familiari e i notabili della sua gente
E invero ogni altra zona il re l’aveva assoggettata. Restava solo una rupe, che il sogdiano Arimaze occupava con trentamila armati, dopo avervi prima ammassato riserve alimentari sufficienti a tanta moltitudine per ben due anni. La rupe s’innalza per trenta stadi, la sua circonferenza ne misura centocinquanta; tagliata a picco da ogni lato e scoscesa, vi si accede per strettissimi sentieri. A metà altezza presenta una caverna con un’apertura angusta e oscura, che va poi gradatamente allargandosi verso l’interno, e nel fondo ospita addirittura vaste gallerie. Per quasi tutta la grotta sgorgano sorgenti le cui acque, confluendo, danno luogo a un fiume lungo le pendici del monte.
Il re, considerata la sfavorevole morfologia del terreno, aveva deciso di andarsene; poi venne preso dall’irrefrenabile desiderio di forzare anche la natura. Tuttavia, prima di giocare la chance dell’assedio, inviò presso i barbari Cophes - era questi figlio di Artabazo - per convincerli ad abbandonare la rupe. Arimaze, confidando nella posizione favorevole, rispose con un profluvio di parole arroganti; alla fine, chiese se per caso Alessandro fosse anche in grado di volare.
Queste cose, riferite al sovrano, ne infiammarono a
tal punto l’animo che, riuniti i suoi abituali consiglieri, denunziò la
tracotanza del barbaro che li sbeffeggiava perché non avevano le ali; ma lui,
la notte seguente, l’avrebbe portato a credere che i Macedoni sapevano anche
volare. «Conducetemi» disse «ciascuno dai propri reparti i trecento giovani più
agili, avvezzi in patria a sospingere le greggi per sentieri e balze pressoché
inaccessibili.» Quelli gli recarono prontamente i più idonei, sia perché dotati
d’un fisico asciutto sia per il loro coraggio. Fissandoli negli occhi, il sovrano
parlò: «Insieme a voi, giovani e miei coetanei, ho infranto le difese di città
invitte prima di me, ho superato catene montuose coperte da neve perenne, sono
penetrato nelle gole della Cilicia, ho sopportato senza dar segno di stanchezza
il pungente freddo dell’India. V’ho dato prova di me, e io ho prova di voi. La
rupe che vedete presenta un’unica via d’accesso, che i barbari presidiano, di
tutto il resto non si curano: non vi sono sentinelle notturne, tranne quelle
che controllano il nostro accampamento. Lo dovrete trovare un passaggio, se
esaminerete con attenzione i varchi che portano alla sommità. Nulla la natura
ha creato così inaccessibile, dove il valore non possa arrivare. Osando ciò per
cui gli altri s’erano sgomentati, abbiamo in nostro potere l’Asia. Guadagnate
la vetta; una volta occupata, me lo segnalerete con veli bianchi, e io, fatte
muovere le truppe, richiamerò l’attenzione del nemico da voi su di noi. Chi per
primo raggiungerà la cima avrà in premio dieci talenti; uno di meno ne riceverà
quello arrivato subito dopo di lui, e la stessa proporzione verrà mantenuta
fino al decimo uomo. Ma sono certo che a voi interessa non tanto la mia
generosità, quanto la mia volontà».
Ascoltarono il re con una disposizione d’animo tale che
sembrava avessero già occupato la sommità; e, una volta congedati, andavano
preparando cunei di ferro, da conficcare tra le rocce, e solide corde. Dopo
aver compiuto un giro intorno alla rupe, nel corso della seconda vigilia,
confidando negli dèi, il sovrano ordinò di muovere da dove l’accesso si
presentava meno aspro e scosceso. Con una provvista di viveri per due giorni,
armati solamente di spade e lance, quelli s’accinsero alla scalata. E inizialmente
procedettero camminando; poi, come s’arrivò alla parete dirupata, alcuni si
issarono aggrappandosi con le mani alle sporgenze rocciose, altri salirono
lanciandovi cappi di funi, taluni, conficcati i cunei tra le rocce, ne fecero
scalini su cui reggersi. Trascorsero la giornata fra paura e difficoltà.
Arrampicatisi faticosamente per aspri passaggi, ne rimanevano comunque di più
impegnativi, e l’altezza della rupe sembrava aumentare. Era davvero uno
spettacolo penoso quando precipitavano nel vuoto quelli che l’appoggio
malsicuro aveva fatto scivolare: l’esempio della disgrazia altrui mostrava come
di lì a poco loro stessi dovessero affrontare identiche situazioni. Pur in
mezzo a queste difficoltà, riuscirono ad arrampicarsi in cima alla montagna,
esausti tutti quanti per la fatica di uno sforzo senza soluzione di continuità,
taluni contusi in qualche parte del corpo, e li colsero a un tempo la notte e
il sonno. Sdraiati dove capitava fra le rocce aspre e impervie, dimentichi del
pericolo incombente, riposarono sino all’alba; e finalmente, svegliatisi come
da un sonno profondo, mentre scrutavano le nascoste gole sottostanti, ignorando
in quale settore della rupe si fosse occultata una sì gran massa di nemici,
notarono del fumo salire da una caverna proprio sotto di loro. Ne dedussero che
quello era il nascondiglio dei nemici. Applicarono pertanto alle aste il
segnale convenuto; e s’accorsero che, del numero totale, trentadue erano periti
nel corso della scalata.
Il re, in apprensione non tanto perché smaniava d’occupare il sito, quanto per la sorte di coloro che aveva mandato incontro a così innegabile pericolo, rimase l’intera giornata con gli occhi fissi alla sommità della montagna; a notte infine, dopo che il buio gli ebbe inibito la vista, si ritirò per riposarsi. L’indomani, a giorno non ancora completamente fatto, Alessandro fu il primo a scorgere i veli, segno che avevano conquistato la vetta. Ma il trasmutare del cielo, con il fulgore della luce che sfavillava e s’offuscava, portava a sospettare un inganno della vista. Quando però nella volta celeste si irradiò una luce più nitida, ogni dubbio scomparve; e fatto convocare Cophes, tramite il quale aveva saggiato le intenzioni dei barbari, lo inviò presso di loro per invitarli ad assumere, almeno in quest’occasione, una decisione più avveduta; se invece, confidando nella posizione favorevole, si ostinavano, l’ordine era che si facessero vedere alle loro spalle quelli che avevano occupato la vetta.
Una volta ricevuto, Cophes prese a invitare Arimaze a consegnare la rupe, in quanto si sarebbe assicurato la benevolenza del re se solo non l’avesse costretto, preso com’era in sì grandi imprese, ad attardarsi nell’assedio di un’unica rupe. Quello, con parole più violente e arroganti della volta precedente, intimò a Cophes di andarsene. Ma questi, preso il barbaro per un braccio, lo invitò a uscire con lui fuori della caverna. Ciò fatto, gli additò i giovani sulla cima <e>, sbeffeggiando a buon diritto la sua alterigia, dichiarò che i soldati di Alessandro avevano le ali.
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